Joe Biden
4 minuti per la letturaLa trappola afghana è appena scattata, altre amare sorprese aspettano gli afghani e l’Occidente. La trattativa internazionale con i talebani non è un’opzione ma una strada obbligata. Ancora una volta l’amministrazione americana e i vertici militari di Washington pagano e fanno pagare agli afghani (e a noi) i loro errori di calcolo terrificanti, peggiori di qualunque sconfitta militare sul campo. Con le loro decisioni improvvide gli Usa stanno mettendo in pericolo la sicurezza mondiale a meno che non sfruttino questo caos che loro hanno creato per impantanare anche Russia e Cina.
I talebani adesso minacciano di reagire se gli Usa resteranno dopo il 31 agosto. Ma questa scadenza non l’hanno fissata loro, è stata il risultato dei negoziati di Doha e del dilettantismo che contrassegna la leadership americana che si dà arie di grande efficienza, con strutture pletoriche e migliaia di pagine di inutili rapporti, per poi commettere dei disastri. Nel febbraio 2020 tra l’inviato speciale di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, e il capo dell’Ufficio politico dei talebani mullah Baradar, prevedeva il ritiro entro il 31 aprile.
Biden ha confermato l’accordo ma posticipato il ritiro all’11 settembre 2021. Poi, sicuro di se stesso, aveva anticipato al 31 agosto, ora alle porte. Con i talebani al potere e scene di drammatica incertezza all’aeroporto. Persino Jens Stoltenberg, capo di una Nato sconfitta in Afghanistan – una aspetto mai da dimenticare – chiede ai talebani di garantire passaggi sicuri. Lo chiedono anche i ministri degli Esteri del G-7, che oggi provano ad alzare la voce: le relazioni con la comunità internazionale dipenderanno dalle azioni dei talebani.
Peccato che a legare mani e piedi all’Occidente siano stati proprio gli americani con le loro decisioni, accompagnate dalla disgregazione delle forze armate locali e dalle precarie istituzioni che avevano insediato: la verità è che gli Usa, con migliaia di uomini di personale adesso da evacuare, avevano messo in piedi in Afghanistan una sorta “bolla” filo-occidentale vendendo una realtà che esisteva per una élite e che noi abbiamo interpretato come i progressi di un intero Paese ma che riguardavano minoranze esigue della popolazione. Il tutto condito da una narrativa venduta ai media e nei discorsi ufficiali lontana anni luce dall’Afghanistan reale.
E adesso gli errori continuano. Uno dei più eclatanti è che chiedono un governo “inclusivo”. Un ritornello inutile e controproducente se significa includere gli stessi personaggi che hanno fatto parte della fallimentare élite, signori della guerra e nuovi oligarchi, sostenuti dagli Stati Uniti dopo il 2001. I talebani di oggi, che sono più astuti di quelli di allora, coglieranno l’opportunità per infilare dentro al governo qualche personaggio gradito agli occidentali ma che alla fine non avrà alcun potere. E che soprattutto si è già dimostrato fallimentare e pronto a farsi comprare dai nuovi padroni. Ecco perché l’Occidente capisce poco dell’Afghanistan, pur essendoci stato vent’anni in armi.
Stesso discorso vale per la resistenza armata al governo talebano di Kabul. Si leggono e si ascoltano sui media cose deliranti alimentate da quel nefasto personaggio di Bernard Henry-Levy che ha già fatto danni in Libia e da altre parti del mondo come fautore di interventi “umanitari” che si sono rivelati tra i peggiori disastri degli ultimi decenni.
L’annuncio di alcuni leader, tra cui il figlio del comandante Ahmad Massud, il Leone del Panshir, sull’inizio della “seconda resistenza” contro i talebani ha sollevato enorme interesse ma l’intento reale di questi leader sembra essere quello di rafforzare la loro posizione negoziale con i talebani più che quello di combattere in armi i talebani. Il figlio di Massud, a differenza del padre, non è mai stato un vero combattente o per lo meno nessuno ne ha mai visto le sue capacità in battaglia. Soprattutto le sue milizie hanno fatto poco in maggio-agosto, anche perché i talebani non hanno raggiunto il Panshir prima della caduta di Kabul. Per sopravvivere ed espandere un’eventuale resistenza, Ahmad e i suoi alleati devono convincere altri gruppi nelle regioni circostanti ad unirsi a loro: il Panshir è enclavato e rischia di vedere tagliate le vie di rifornimento.
La versione di fatti più probabile è che Massud sta negoziando con i talebani una quota di potere per difendere gli interessi dalla comunità tagika nei confronti dell’etnia pashtun che compone la maggioranza dei talebani. Insomma è la solita vecchio tattica afghana, una trappola in cui si rischia di cadere ancora una volta. Così gli Usa e l’Occidente tratteranno con i talebani e per un motivo molto semplice: sono anche loro una fazione del grande gioco afghano.
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