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Le proteste a Cuba contro la dittatura erede del castrismo

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OGNI volta che sui giornali si parla di Cuba arrivano quelli che devono  impartire la lezione alla sinistra che non condanna mai abbastanza il  regime ereditato dal castrismo.    Avranno pure ragione su certi silenzi della sinistra – a Cuba si vive  molto male, il regime, sotto sanzioni Usa, è fallimentare e importa i  due terzi degli alimenti – ma sui giornali scrive anche gente che non si  è mai mossa dal giardino di casa, non è mai andata a Cuba, in Medio  Oriente, in Africa o in Afghanistan.

I regimi liberticidi sono  vergognosi ma bisogna anche andarci nei posti, non per dare impossibili  giustificazioni dell’esistente ma per conoscerli.    E soprattutto per farsi anche una o due domande: cosa può venire dopo  il crollo di un regime? E chi paga per la sopravvivenza di questi  popoli?  Gli ultimi decenni dovrebbero indurre i nostri eroici giardinieri della  stampa a fare qualche riflessione. Nel 2001 dopo l’11 settembre siamo  andati a liberare il popolo afghano dai talebani e da Al Qaida. Missione  compiuta? Oggi ci ritiriamo e la gente che ha lavorato con gli  occidentali scappa come può perché ha percepito perfettamente che i  talebani rioccuperanno il Paese. E’ possibile che quando tornerò in  Afghanistan mi torni utile il vecchio visto sul passaporto  dell’Emirato dei talebani che ottenni pochi mesi prima dell’11  settembre.    

Nel 2003 gli Usa hanno deciso di abbattere il regime di Saddam Hussein,  sulla scorta delle false accuse che possedeva armi di distruzione di  massa. Com’è andata lo sappiamo fin troppo bene. L’Iraq si è  disintegrato, precipitando in un caos infinito e nella guerra civile,  poi è stato occupato dal Califfato e ancora oggi si dibatte in una  crisi senza sbocchi. Qui l’Italia ha appena assunto il comando delle  forze Nato: non si sa bene perché andiamo in Iraq ma non siamo stati  capaci recentemente di intervenire in Libia, paese che ci riguarda molto  da vicino e dove ora, in Tripolitania, la fa da padrone Erdogan.    

Eppure nel 2011 l’Italia fu spinta a bombardare Gheddafi, il nostro  maggiore alleato nel Mediterraneo, contribuendo a creare il caos in cui  oggi ci troviamo non solo nel Mediterraneo e ma in tutto il Sahel dove  stiamo aprendo una missione militare in Niger. Nessuno si è mai  preoccupato allora cosa potesse significare la caduta del regime  gheddafiano, il crollo delle frontiere libiche e le sue conseguenze.    

Per non parlare della Siria. Nel 2011 i nostri strateghi occidentali – compresi quelli nostrani che non avevano mai visto la Siria neppure in  cartolina – sostenevano che le proteste avrebbero abbattuto il regime  baathista della famiglia Assad. In fondo bastava dare una spintarella.  Fu così che americani ed europei diedero il via libera alla Turchia per  far passare alla frontiera siriana migliaia di combattenti jihadisti: in  questo maniera l’Isis ha potuto espandersi dall’Iraq alla Siria  mentre la bandiera nera del Califfato sventolava a venti chilometri dal  centro di Damasco. Ma il mantra rimase per molto tempo quello di  abbattere il regime: che fine facessero i siriani, da una parte  soffocati da Assad e dall’altra dai jihadisti, importava poco o nulla.  Come non aveva avuto rilevanza il destino degli afghani, degli iracheni  o dei libici. Ora di abbattere Assad, specialmente dopo l’intervento  russo del 2015, non ne perla più nessuno mentre il Paese resta sotto  embargo e la ricostruzione è lontana: chi paga?    

Già chi paga i crolli di regime? Pagano i popoli con milioni di morti,  intere città distrutte, rimaste senza luce, acqua, elettricità, pagano  i giovani, senza lavoro e senza alternative, pagano le donne e le  persone più vulnerabili. Fateci caso: ultimamente nessuno si pone più  il problema di ricostruire l’Iraq, la Libia, la Siria e tanto meno  l’Afghanistan. Come se non parlarne coprisse anche i fallimenti  occidentali.  Ma come vive questa gente interessa poco o niente. A noi piace  descrivere la rivolta cubana come un momento decisivo della storia  (magari lo sarà pure), partecipiamo alle sorti dei manifestanti,  condanniamo la repressione e i silenzi complici del regime e ci  indigniamo se le cose non vanno come diciamo noi. Tutto vero, tutto  giusto. Oggi però nessuno si ricorda più del venezuelano Guaidò che  due anni tentò un colpo di mano davanti a una pompa di benzina: eppure  venne riconosciuto come presidente del Venezuela al posto di Maduro da  Usa, Francia e Gran Bretagna. Poi più nulla, il vuoto.

Ma i nostri  giardinieri del giornalismo continuano a sentenziare, condannare,  confezionando articoli come si potano le rose e distribuendo petali di  saggezza. Sempre da lontano, però.


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