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Joe Biden

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Viviamo tempi interessanti, forse troppo. Emergenza pandemica, guerra in Ucraina ed escalation delle tensioni tra USA e Cina sono solo alcuni degli elementi di contesto che rendono quantomai complesso il quadro geopolitico di questi giorni.

In questo senso, può essere importante fornire una qualche chiave interpretativa per decodificare al meglio quanto avverrà nelle prossime settimane, auspicando che si vada verso una progressiva riduzione dell’elevatissimo livello di tensione ormai raggiunto a livello internazionale.

Scopro subito le carte: il ruolo di king maker, ovvero di protagonista dei nostri destini, sarà ancora una volta giocato dagli Stati Uniti d’America; la Casa Bianca ha infatti alternato in questi anni capacità di coesione ad azioni (almeno parzialmente) divisive, che hanno contribuito a fomentare gli animi nelle diverse aree del Pianeta.

Un indubbio e, per certi versi, imprevedibile successo di Biden è da ricondurre alla sua capacità di mantenere unito un grande gruppo di alleati (riconducibili alla cosiddetta sfera occidentale delle democrazie) nei confronti dell’arrogante (tentata) invasione di Putin in Ucraina.

Un successo tale era stato ottenuto solo altre due volte in passato: per sconfiggere Saddam Hussein nella guerra del Golfo nel 1990 e per vincere l’Isis nel 2014. Non vi è, d’altro canto, ombra di dubbio che la recente decisione di inviare carri armati a Kiev sia una chiara evidenza che la Nato, data per debole solo un anno fa, è ora più unita e risoluta di quanto non l’abbiamo mai vista prima.

Di converso, abbiamo assistito ad azioni/decisioni fortemente orientati ad una spinta nazional-sovranista. Intendo, in primo luogo, paradossalmente far riferimento alla stipula dell’Indo-Pacific Economic Framework, che dovrebbe unire 13 Paesi della regione con gli USA (e contro la Cina) ma che non raggiunge nei fatti l’obiettivo in quanto la Casa Bianca non ha deciso di abbattere le barriere tariffarie che ancora insistono per le imprese di questi Paesi che vogliono esportare in USA.

Ancora più divisivi si sta rivelando il varo de (i) l’Inflation Reduction Act – che stanzia oltre 400 miliardi di dollari a favore delle imprese americane a patto che si impegnino nella transizione ambientale -, (ii) il Chips Act – che impegna 50 miliardi di dollari di sostegni per il rafforzamento dell’industria locale dei semiconduttori – e (iii) le misure restrittive contro il commercio di tecnologia con la Cina; sono, queste, mosse che attestano come gli Stati Uniti stiano perseguendo un approccio bipartisan “America – first” all’economia globale, evidenziando una inversione della globalizzazione. È anche in questa chiave che quindi possiamo interpretare il quadro tutt’altro che unanime all’interno delle assemblee ONU nel momento in cui si tratta di dar contro allo zar di San Pietroburgo; la spaccatura è per il momento tra democrazie occidentali e resto del mondo ma a voler ben guardare la stessa coesione occidentale potrebbe venir meno.

La miccia di innesco dell’eventuale frattura geopolitica sarà, come spesso capita, tutta interna agli USA e riguarderà il confronto/scontro tra Repubblicani e Democratici; se prevarrà una visione auto-proiettata ed isolazionista dell’America, il disaccoppiamento (economico e tecnologico) nei confronti della Cina diventerà ancora più marcato; a quel punto molti paesi europei e asiatici – per capirci anche Giappone, Indonesia, Vietnam e Thailandia – potrebbero entrare in difficoltà rispetto all’atteggiamento americano in quanto la pressione delle rispettiva imprese nazionali – intenzionate a preservare i loro (enormi) profitti in Cina – potrebbe rivelarsi non contenibile se non con un (parziale) cambio di atteggiamento rispetto alla Casa Bianca.

Il mondo ha dunque bisogno, ora più che mai, di un’America dialogante, che certamente tuteli, e ci mancherebbe, i propri interessi ma non secondo la prospettiva “America – First”; in fondo, il periodo in cui il mondo è cresciuto di più dal punto di vista economico, sociale e tecnologico è quello in cui gli USA si sono eretti a guida di un mondo aperto.

Speriamo quindi che il richiamo della storia abbia il sopravvento in questa (troppo urlata) politica contemporanea; la prima occasione è rappresentata dalla modifica dell’Inflation Reduction Act, che oggettivamente rappresenta un’asimmetria competitiva poco sopportabile dall’UE. Come scrive Rachman sulle colonne del Financial Times di questa settimana “l’unità tra alleati democratici ottenuta nel 2022 è un bene prezioso”, che non deve essere sprecato nel 2023.


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