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Kim Jong-un

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COME se la guerra in Ucraina e il conflitto latente tra Usa e Cina su Taiwan e il Mar Cinese meridionale non fossero sufficienti, nella giornata di ieri il dittatore nord-coreano Kim Jong-un ha fatto risentire la sua voce ordinando, per la prima volta dal 2017, l’attraversamento dei cieli del Giappone da parte di missili balistici.

LE STRATEGIE DI KIM

La mossa non giunge inattesa sia per ragioni contingenti che strutturali. Nelle scorse settimane, infatti, si sono tenute nella zona delle esercitazioni militari trilaterali, che hanno visto coinvolti Corea del Sud, Giappone e Usa, e, pressoché in contemporanea, è avvenuta la visita di Kamala Harris (vice-presidente americano) nella penisola coreana: entrambe le mosse non potevano che essere interpretate da Kim come delle provocazioni.

D’altro canto, l’aggressività di stampo militare, che si manifesta anche attraverso la progressiva costruzione di un arsenale nucleare, è di fondamentale importanza per il regime, sia a fini interni che esterni, indipendentemente dalle contingenze del momento. Internamente Kim Jong-un brandisce le armi per mostrare alla popolazione e alle élite di essere saldamente al comando della nazione, il raggiungimento dello status di potenza nucleare serve parimenti per inorgoglire i cittadini e legittimare il regime a dispetto della povertà dilagante.

Sul fronte esterno, il continuo ricorso a lanci di missili e i test nucleari vogliono invece rappresentare fattori di dissuasione rispetto a eventuali tentativi (da parte di potenze straniere) di sovvertire il regime.

IL RUOLO DELLA CINA

In questo quadro, sono in molti a chiedersi se la Cina possa giocare un qualche ruolo in commedia, auspicabilmente di moderazione e gestione delle brame nucleari del dittatore nord-coreano. Tale riflessione deriva da una duplice constatazione: da un lato, la numerosità e complessità dei fronti aperti da Pechino, sia in abito economico che geopolitico, è tale da ritenere come davvero poco auspicabile la gestione di un vicino capriccioso e sempre più litigioso.

Dall’altro, la Cina è l’unico Paese con cui Pyongyang è legata da un trattato di amicizia, cooperazione e assistenza (firmato nel 1961), tanto da rappresentare la destinazione di oltre il 90% del commercio estero nord-coreano. In sostanza, secondo questa prospettiva, Pechino avrebbe tutto l’interesse e le leve per indurre a più miti consigli Kim Jong-un.

Nella realtà dei fatti, il quadro degli interessi di Pechino e della relazione con Pyongyang è più articolato, per due motivi. La Cina non ha, da un lato, un interesse reale a pregiudicare troppo i rapporti con l’irruente vicino per ragioni di sicurezza e difendibilità del proprio territorio: la Corea del Nord svolge in questo senso il fondamentale ruolo di “zona cuscinetto”, che isola il confine cinese dalle truppe americane di stanza nella Corea del Sud.

Come tutti i Paesi territorialmente vasti, la Cina ha infatti il problema, immanente e permanente di proteggere le proprie sterminate frontiere, e quella con la penisola coreana è di vitale importanza, vista la pressione esercitata nelle vicinanze dalle basi militari Usa. Dall’altro lato, il regime stesso di Kim è poco sensibile a eventuali pressioni di Pechino per il fatto che il mantenimento di un certo livello di assertività militare è strettamente funzionale alla sopravvivenza del regime, come sopra ricordato.

L’OBIETTIVO DI PECHINO

Insomma, la situazione ideale per Pechino sarebbe di avere una Corea del Nord debole ma stabile, armata ma non troppo aggressiva. In questo senso, le intemerate azioni di Kim Jong-un non fanno certamente piacere, ma nel contempo sono comode.

Alla leadership del Partito Comunista cinese spetta dunque il delicato compito di gestire un equilibrio precario tra mantenere in vita l’attività militare di Pyongyang ed evitare che il dittatore nord-coreano esageri nell’escalation dei toni, innescando in questo modo uno stato di tensione nel Pacifico non più controllabile e, soprattutto, fuori dagli interessi di Pechino.


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