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Il presidente del Consiglio Mario Draghi

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«IL SUO lavoro ha dato fiducia ai cittadini e alle banche e oggi possiamo contare sulla sua perizia nel momento in cui l’Europa affronta altre sfide esistenziali come la guerra in Ucraina. È un altro momento whatever it takes».

In apertura della sessione plenaria di ieri a Strasburgo, la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola accoglie Mario Draghi con un omaggio ammirato. Un saluto che riconosce al presidente del Consiglio una capacità di guida di tutta l’Unione europea. E in effetti il discorso di Draghi all’europarlamento disegna il futuro dell’Europa con lucidità e potenza. La crisi ucraina è, per il premier italiano, l’occasione per fare il punto sui compiti dell’Unione nel nuovo quadro geopolitico.

«Abbiamo bisogno di un federalismo pragmatico, che abbracci tutti gli ambiti colpiti dalle trasformazioni in corso», spiega, dall’economia, all’energia, alla sicurezza. Ma serve pure un «federalismo ideale», capace di difendere «i valori europei di pace, di solidarietà, di umanità» meglio di come potrebbero fare i singoli stati da soli. «Se ciò richiede l’inizio di un percorso che porterà alla revisione dei Trattati, lo si abbracci con coraggio e con fiducia»: è questo l’incitamento centrale del messaggio di Draghi al Parlamento europeo. «Abbiamo reso l’Unione Europea uno spazio non solo economico, ma di difesa dei diritti e della dignità dell’uomo», chiarisce il premier, e «ora è il momento di portare avanti questo percorso». Come? «Il 9 maggio si conclude la Conferenza sul Futuro dell’Europa e la Dichiarazione finale ci chiede di essere molto ambiziosi. Vogliamo essere in prima linea per disegnare questa nuova Europa», assicura Draghi.

Il modo in cui l’Ue sarà capace di affrontare l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia – che «ha rimesso in discussione la più grande conquista dell’Unione Europea: la pace nel nostro continente» – sarà cruciale a questo scopo. «Dobbiamo sostenere l’Ucraina, il suo governo e il suo popolo, come il Presidente Zelensky ha chiesto e continua a chiedere di fare. In una guerra di aggressione non può esistere alcuna equivalenza tra chi invade e chi resiste. Vogliamo che l’Ucraina resti un Paese libero, democratico, sovrano. Proteggere l’Ucraina vuol dire proteggere noi stessi, vuol dire proteggere il progetto di sicurezza e democrazia che abbiamo costruito insieme negli ultimi settant’anni. Aiutare l’Ucraina vuol dire soprattutto lavorare per la pace».

Draghi chiarisce a nuora (il Parlamento europeo) perché suocera (i partiti italiani no Nato e filoputiniani) intenda. In queste ore, infatti, è molto forte l’offensiva di Lega e M5s sulla questione dell’invio delle armi all’Ucraina e sul posizionamento dell’Italia nel quadro euroatlantico. Da giorni Giuseppe Conte, il leader dei grillini, chiede al capo del governo di «riferire in Parlamento» sulla guerra in Ucraina per spiegare «se stiamo andando nella direzione dei falchi che pensano di sconfiggere la Russia e mettono in conto un’escalation militare o nella direzione delle colombe per trovare una soluzione politica». A parole, Conte dice di non mettere in discussione l’alleanza euro-atlantica, ma la verità è un’altra: il M5s vorrebbe sfilare l’Italia dagli impegni in favore dell’Ucraina, primo tra tutti, l’invio delle armi. La posizione è giustificata, da un lato, con le sofferenze economiche che gli italiani dovranno subire per via della partecipazione diretta a questo sforzo comune dell’Europa. Dall’altro, c’è la scommessa demagogica contro l’aumento delle spese per la difesa – «l’Italia deve essere in trincea e in prima fila per la transizione energetica, non nella corsa al riarmo», dice Conte – suggerita dai sondaggi che disegnano un’Italia perplessa rispetto alla fornitura di aiuti militari.

La stessa scommessa fa Matteo Salvini sul fronte destro. Il leader della Lega, che si fa schermo con gli appelli del Papa, si oppone per la prima volta apertamente al terzo decreto interministeriale che prevede la fornitura di armi più pesanti a Kiev, provvedimento che il governo ritiene cruciale. «Non penso che l’invio di altre armi significa avvicinare la pace», dice Salvini, che addirittura agita l’ipotesi di un suo incontro con Vladimir Putin (per il quale Palazzo Chigi ha già manifestato irritazione). Ma se questa diventasse la linea dell’Italia significherebbe uscire definitivamente dal consesso di quei paesi guida – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania – che in questo momento sostengono la risposta euroatlantica a sostegno della libertà degli ucraini contro la minaccia russa.

Sul punto Draghi ha già chiarito in occasione della conferenza stampa di lunedì sera. «Noi cerchiamo la pace, non abbiamo bisogno di riposizionare l’Italia in questo senso, non c’è nessun appiattimento», ha detto il premier rispondendo a una domanda sulla prossima visita a Washington che confermerebbe l’“appiattimento” della politica estera italiana sulle posizioni del presidente Usa Joe Biden. Inoltre, con la stessa smorfia di chi caccia via una mosca fastidiosa, Draghi ha citato le parole del discorso di insediamento per ricordare che il suo governo nasce sulle fondamenta dell’alleanza euroatlantica. Poi ha aggiunto: «le armi sono state inviate da tutti i partner, non devo riposizionare niente. Nessuno di noi vuole abbandonare l’Ucraina. Se l’Ucraina non riesce a difendersi avremo sottomissione e schiavitù di un paese democratico e sovrano e nessuno vuole questo in Italia».

Il punto della difesa europea diventa così sempre più rilevante. Nel discorso di ieri a Strasburgo, il capo del governo ci torna su, avvertendo che «l’autonomia strategica nella difesa passa prima di tutto attraverso una maggiore efficienza della spesa militare in Europa». Per raggiungere l’obiettivo potrebbe essere opportuno convocare una conferenza ad hoc. Ma soprattutto servirà accompagnare la difesa europea «a una politica estera unitaria e a meccanismi decisionali efficaci». Draghi lancia sul tavolo una rivoluzione epocale: il superamento di quel «principio dell’unanimità, da cui origina una logica intergovernativa fatta di veti incrociati» per mettere i paesi membri nelle condizioni di prendere decisioni «a maggioranza qualificata».

Per il premier italiano superare i poteri di veto dei singoli stati significherebbe rendere l’Europa «più tempestiva nelle decisioni» e «più credibile di fronte ai suoi cittadini e al mondo». Una proposta radicale che quasi lo candida a guidare la riforma dei trattati europei.


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