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Lo scambio reciproco che in fondo è alla base di ciò che definiamo globalizzazione ci aveva convinti di una diretta correlazione con ciò che chiamiamo “interesse alla pace”; interesse alla pace perché in tal modo non veniva incrinato il processo produttivo e si perfezionava, anno dopo anno, il rapporto tra domanda e offerta.
Un modello che per un numero rilevante di anni aveva quasi convinto tutti di una naturale crescita delle economie consolidate. In fondo, fino al 2008 ci eravamo convinti tutti, ripeto tutti, che annualmente il Prodotto interno lordo sarebbe cresciuto poco o molto, ma sarebbe cresciuto sempre.
PREVISIONI SMENTITE
Nel 2008, dopo praticamente più di trent’anni, non in Italia ma nell’intero sistema economico occidentale, abbiamo assistito all’avvio di una difficile recessione.
Una recessione che, come ho ricordato più volte, era stata anticipata solo dal mondo dell’autotrasporto: circa sei mesi prima gli autotrasportatori ci allertarono preannunciando un crollo rilevante del Prodotto interno lordo, mentre contestualmente il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea, la Banca d’Italia e il ministero dell’Economia e delle Finanze prevedevano per il 2008, 2009 e 2010 una crescita variabile del Pil tra il 3,5 per cento e il 5 per cento. Invece, come tutti ricordiamo, il Pil crollò a soglie pari a -5%, -7% e -8%.
Tuttavia quella crisi, ricca di tante motivazioni che ancora oggi non abbiamo capito, ha mantenuto inalterata la globalizzazione.
Eravamo tutti convinti che lo scambio reciproco in realtà era un modo per ottimizzare le convenienze. In fondo, un elemento che aveva convinto tutti circa le convenienze della globalizzazione era il “costo del lavoro”, cioè la possibilità di produrre utilizzando le forze di lavoro senza adeguate garanzie sociali e previdenziali.
Senza dubbio questa forte e grave anomalia non veniva apprezzata da chi, al contrario, rispettava contratti di lavoro corretti e il costo del lavoro diventava anche una condizione per un cambiamento sostanziale delle ubicazioni delle attività produttive.
Adesso è emerso un fatto nuovo: il fattore produttivo energia è diventato il comune denominatore di ogni crescita e, allo stesso tempo, un fattore il cui costo non fa alcuno sconto a nessun sistema produttivo.
Per capirlo è stato necessario, purtroppo, assistere a un’esperienza diretta come quella dell’attuale guerra in Ucraina. Lo abbiamo capito e non ci siamo resi conto che diversificare le provenienze del gas o del petrolio non annulla, ma al massimo riduce la sudditanza, la dipendenza economica del nostro Paese da determinati fornitori.
MODELLI DA RIPENSARE
Dobbiamo, quindi, ripensare non solo gli scenari che avevamo immaginato, e forse l’intero sistema della produzione deve rivedere alcuni parametri portanti come la localizzazione produttiva e di conseguenza quella distributiva che va sotto il nome di logistica.
La supply chain ormai ci descrive, in modo capillare, tutto il complesso itinerario che caratterizza la disponibilità e l’ evoluzione di un prodotto, dalla sua fase iniziale fino al dettaglio legato alla capillare distribuzione dello stesso, e questo articolato sistema, in cui tutti i segmenti legati alla produzione, allo stoccaggio, alla distribuzione e al commercio sono caratterizzati da un costo, porta direttamente e indirettamente alla definizione di un prezzo finale del prodotto che viene immesso nel mercato.
Questi segmenti, alla luce sia della difficoltà nell’approvvigionamento dell’energia, sia del costo dell’energia, portano automaticamente a un’articolata reinvenzione dei siti in cui produrre.
1) In primo luogo sarà necessario riportare nei confini nazionali le produzioni o parti di produzione che consideriamo pertinenti alle filiere produttive che riteniamo strategiche.
2) Sarà necessario decidere nuove ubicazioni sul territorio: non grandi centri della produzione, ma micro centri che siano capaci di garantire il prodotto finito in un arco temporale contenuto.
3) Rivedere integralmente la linea del freddo ricorrendo a forme di contrattazione nuove. Cercando, cioè, di utilizzare società preposte alla gestione e alla fornitura di impianti frigoriferi e in tal modo in grado di utilizzare economie di scala.
4) Rivedere la logica dei grandi interporti e identificare centri attrezzati per il comparto agro alimentare e in genere per prodotti food in grado di rivedere integralmente le logiche distributive.
5) Per alcune filiere, come per esempio quelle legate al settore fashion, ipotizzare forme di stoccaggio e distribuzione completamente diverse da quelle attuali, garantendo, ove sia possibile, una ubicazione comprensiva di stoccaggio e mercato.
6) Per alcuni prodotti no food, come ad esempio quelli del comparto ceramiche e piastrelle bisognerà rivedere integralmente le fasi di utilizzo delle risorse energetiche e cadenzare i trasferimenti dei prodotti, in modo tale da evitare congestionamenti in uscita dalle aree di produzione.
7) Bisognerà dare grande spazio al modello just in time, in modo tale da dare contestualità al rapporto tra domanda e offerta e, al tempo stesso, evitare un inutile accumulo di scorte. In fondo si tratta di un modo per contenere gli sprechi nell’ambito del processo produttivo.
8) Trasferire su ferrovia quelle merci che, allo stato attuale, utilizzano in modo errato la strada. In questo caso è opportuno un esempio: è inconcepibile trasportare via gomma tubi di acciaio. In fondo, senza avviare forme dirigistiche, forse sarà necessario ricorrere a un codice comportamentale per la scelta di determinate modalità di trasporto, in funzione proprio della ottimizzazione dell’uso dell’energia.
Potrei continuare a elencare accorgimenti e alternative all’attuale assetto logistico e potrei forse anche indicare e prospettare alternative alle attuali abitudini consolidate legate alla distribuzione, ma penso che sarebbe inutile, in questa fase in cui siamo ancora convinti che torneremo alla vecchia globalizzazione e torneremo alla tranquillità per quanto riguarda gli approvvigionamenti energetici.
CROLLO DELLE CERTEZZE SULL’ENERGIA
Sono convinto, invece, che fra qualche mese ci accorgeremo che sono cambiati tutti i riferimenti che caratterizzavano l’economia del Paese, dell’Unione europea e dell’intero pianeta.
Queste previsioni e questi convincimenti verso un sostanziale cambiamento non sono frutto delle mie immaginazioni. Anche questa volta, infatti, è sufficiente parlare con chi, nel 2008, anticipò la recessione, cioè con il mondo dell’autotrasporto, per convincersi che la guerra in Ucraina ha praticamente cambiato la grammatica classica della logistica, e il cambiamento non è avvenuto solo perché è venuta meno una vasta area del sistema europeo, non è avvenuto solo per la perdita di assi chiave tra l’Est dell’Europa e la vasta area occidentale, ma è venuta meno perché una convinta tranquillità sulle fonti di approvvigionamento energetico è crollata e ha creato nel sistema produttivo la rincorsa a creare condizioni autonome, a creare condizioni di contenimento dell’uso di energia e tutto ciò ha frenato in modo sostanziale questa rincorsa alla globalizzazione.
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