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L’attenzione del mondo è oggi polarizzata sulle brutali atrocità, presumibilmente commesse dall’esercito russo o dai suoi mercenari ceceni e siriani. L’emozione suscitata ha indotto il cancelliere tedesco Scholz e, in Italia, il segretario del Pd Enrico Letta, a ipotizzare il completo blocco delle importazioni dalla Russia di petrolio, gas e carbone.
L’orrore suscitato dalle immagini di Bucha non deve però impedire una razionale valutazione degli effetti delle sanzioni contro la Russia e dei costi sulle nostre economie. Il problema della loro efficacia sul conflitto è secondario (sono però persuaso che siano efficaci sul Cremlino, nei limiti in cui possono esserlo le sanzioni). In ogni modo, la loro efficacia può essere valutata solo nel lungo termine ed è sempre largamente imprevedibile.
L’INTERESSE DELL’ITALIA
A breve termine, è interesse dell’Italia, piena di debiti, non dissociarsi dalla Ue e dagli Usa. Non solo saremmo marginalizzati. I nostri alleati ce la farebbero pagare pesantemente. Molti in Italia non se ne rendono conto. Pontificano sui costi, ma trascurano il fatto che la nostra libertà di scelta è limitata. L’aggressione della Russia all’Ucraina ha consistenti impatti geo-economici non tanto per gli effetti diretti delle sanzioni decise contro Mosca da parte degli Usa e dei loro alleati europei e asiatici, quanto per quelli indiretti, che non sono solo regionali, ma globali. La Russia, con un Pil pari al 2%, è l’11ª potenza economica del mondo (nel 1935, ai tempi delle sanzioni per la guerra d’Etiopia, l’Italia era la 7ª).
La riduzione nel 2022, per effetto delle sanzioni, del 9-15% del suo Pil, come valutato dall’Ocse, avrebbe quindi un impatto solo marginale (come lo avrebbe anche la prevista diminuzione del 40% del Pil dell’Ucraina). Però, la velocità con cui sono state decise, la loro ampiezza, sconosciuta in precedenti casi di sanzioni, e il fatto che non sono state attuate da importanti economie – quali la cinese e l’indiana, che cercano di aggirare a loro vantaggio il regime sanzionatorio occidentale – nonché la posizione preminente russa nelle forniture di molte materie prime, rendono molto rilevante l’impatto del conflitto e delle sanzioni sull’economia e la finanza globali, soprattutto per taluni Paesi, come l’Italia e la Germania, fortemente dipendenti dal gas russo.
Molto differenti sono i costi delle sanzioni fra i vari Paesi e settori produttivi, soprattutto perché diversa è la dipendenza dalle commodity russe. A parte il gas naturale e il petrolio, di cui la Russia copre rispettivamente il 30 e il 10% dei consumi europei, Mosca esporta il 21% del grano (a cui va aggiunto l’11% di quello ucraino), il 25% del palladio e il 20% dei fertilizzanti mondiali, a cui vanno aggiunti legname, nickel, alluminio ecc.
IL NODO DEL GAS
Particolarmente delicato è il settore del gas (che dipende dalle infrastrutture fisse dei gasdotti), con dipendenza dalle importazioni dalla Russia del 51% dei consumi tedeschi e di oltre il 40% di quelli italiani. Essi non sono sostituibili in tempi brevi. Gli effetti negativi del loro blocco possono essere solo attenuati.
Malgrado ciò, si parla – a parer mio giustamente – di estendere il sistema sanzionatorio a gas e petrolio. Le sanzioni hanno effetto solo se colpiscono a morte l’economia che le subisce. Vale per esse il principio della concentrazione degli sforzi. Gli impatti sull’economia italiana sarebbero disastrosi nel breve periodo. Minori però di quelli sull’economia europea e su quella tedesca in particolare. La “densità energetica” (numero di KWh per creare un Pil di 1 miliardo di euro) è pari al 64% di quella media europea e al 57% di quella tedesca.
Sanzioni molto dure sono destinate a durare meno nel tempo e hanno maggiore probabilità di raggiungere i risultati sperati. Alla fine possono pesare meno sull’economia e sul sociale. L’impatto negativo delle sanzioni sulla crescita, soprattutto se verranno estese al settore energetico, diverrebbe rilevante, soprattutto nei Paesi più vulnerabili alla riduzione dei rifornimenti di gas e in quelli in via di sviluppo per la diminuzione delle quantità e l’aumento del prezzo del grano (le “primavere arabe” insegnano).
Per quanto riguarda il Pil, le attuali sanzioni produrrebbero, secondo l’Ocse, una riduzione dell’1,1% in Europa e dello 0,9% negli Usa. Tali valutazioni dell’Ocse sono ritenute ottimistiche. Non terrebbero conto che gli impatti del conflitto si abbatterebbero su economie già indebolite dal Covid-19 e dalla necessità di combattere un’inflazione crescente, dalla carenza e dall’aumento del prezzo delle materie prime, nonché dell’esigenza di ristrutturare le supply chains per diminuirne l’eccessiva dipendenza dalla Cina e dei costi connessi con la transizione energetica, dato il maggior costo delle rinnovabili rispetto ai fossili.
COSTI DIVERSI PER USA E UE
Sempre secondo le valutazioni dell’Ocse, l’aumento dell’inflazione per la guerra in Ucraina sarebbe del 2,5% nel mondo, del 2% nell’eurozona e dell’1,4% negli Usa. Tali valutazioni ipotizzano che le operazioni militari cessino in Ucraina entro la metà del prossimo maggio e che le sanzioni vengano revocate a fine 2022, data entro cui – a parer mio sempre ottimisticamente – l’Organizzazione ipotizza la firma di un trattato di pace.
Esistono molti altri imprevisti e interrogativi senza risposta. Uno riguarda la riduzione dell’efficacia delle sanzioni per le contromisure adottate da Mosca. Ad esempio, il pagamento in rubli delle materie prime russe ha riportato il valore del rublo ai livelli dell’anteguerra (da circa 150, a cui era schizzato dopo il 24 febbraio, a 85 rubli per dollaro). Ma si è trattato di una misura disperata, con effetti temporanei. Sul mercato nero, il cambio continua infatti a essere di 130-140 rubli per dollaro. Ne approfitta l’India, per comprare petrolio russo a prezzi stracciati, e la Cina che sta acquistando a man bassa pezzi dell’industria della Russia, riducendola a colonia cinese.
Le iniziative adottate dalla Cina e dall’India per aggirare le sanzioni occidentali sono state finora molto timide. Entrambe temono di essere soggette alle sanzioni “secondarie” o “extraterritoriali” previste dall’International Emergency Economic Power Act statunitense, in particolare all’esclusione dal sistema di transazioni finanziarie Swift (che collega 12.000 banche in 200 Stati), non contrastabile dall’analogo sistema cinese Cips, collegato con 3.000 banche in un’ottantina di Stati.
Pechino è consapevole di non poter sfidare, ancora per decenni, la superiorità del dollaro (62% delle riserve mondiali, 43% del commercio, dominio sulle istituzioni finanziarie internazionali, affidabilità del sistema legale Usa, capacità di creare liquidità, ecc.).
La vera sfida che devono affrontare nel futuro le sanzioni contro la Russia consiste nel fatto che il loro costo è molto diverso per gli Usa e per l’Europa e, all’interno di quest’ultima, fra i suoi Stati membri. Non si intravvede la possibilità che vengano adottate multilateralmente adeguate misure di compensazione a vantaggio dei Paesi e settori più colpiti e che, con il passar del tempo, si rompa l’unità che ha caratterizzato il blocco delle democrazie nel decidere le sanzioni. La rottura potrebbe estendersi alla bi-partisanship finora esistita negli Usa, specie con l’avvicinarsi delle elezioni di mid term.
LE DUE STRADE OBBLIGATE DELL’OCCIDENTE
La storia insegna che è molto difficile modificare un regime sanzionatorio deciso su base multilaterale. Non può essere modulato con l’andamento parallelo del conflitto e delle trattative di pace. Da qui l’esigenza – oltre che per ragioni umanitarie, per contenere i costi della ricostruzione e dei rifugiati e, soprattutto per evitare il rischio di escalation – di terminare il conflitto il più rapidamente possibile.
Per l’Occidente solo due strade sono possibili a tal fine: inasprire le sanzioni contro la Russia e aumentare il sostegno militare all’Ucraina. Per quest’ultimo, non solo i carri armati annunciati dalla Germania, ma anche missili antinave a lunga gittata che obblighino le navi di fronte a Odessa a ritirarsi. Ogni sottile distinguo, per quanto animato dalle migliori intenzioni, come sono anche taluni interventi del Papa, non è che benzina buttata sul fuoco della guerra, che il popolo ucraino ha deciso di combattere.
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