Mario Draghi e Vladimir Putin
5 minuti per la lettura«La chiamo perché voglio parlare di pace». «Certo, parliamo di pace». La telefonata di mercoledì pomeriggio tra Mario Draghi e Vladimir Putin è cominciata così. A raccontarlo ieri è stato proprio il presidente del Consiglio italiano nel corso di una conferenza stampa presso la sede romana della stampa estera.
«Se e quando è previsto un cessate il fuoco?» ha provato a chiedere Draghi. «La cosa più importante è ora dimostrare che questo desiderio di pace esiste attuando un cessate il fuoco, anche breve». Ma la risposta del presidente russo è stata ancora evasiva.
«Le condizioni non sono mature, però abbiamo aperto il corridoio umanitario di Mariupol», ha detto Putin. Che poi si è dilungato con la descrizione della situazione geostrategica dell’Ucraina e delle possibili condizioni per un’intesa. «Ma per risolvere certi nodi cruciali dell’accordo è necessario un incontro con il presidente Zelensky. Che peraltro lo sta chiedendo dall’inizio della guerra», ha obiettato Draghi al capo del Cremlino.
Ancora una volta Putin è stato freddo: «I tempi non sono ancora maturi. Occorre che i negoziatori vadano avanti con le trattative». Draghi assicura però che, ad avviso di Putin, i negoziati registrano dei piccoli passi avanti. «Ma sono molto cauto, c’è ancora molto scetticismo», precisa il premier italiano, poco prima che il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, presentando il suo rapporto annuale per il 2021, dichiarasse: «vediamo dichiarazioni di ritiro delle forze russe da Kiev ma la Russia ha sempre mentito».
Poi snocciola i fatti con precisione ragionieristica. «Il 29 marzo ci sono stati tre annunci», ricorda Draghi: «Il ministero della difesa russo ha annunciato una riduzione radicale dell’attività militare nella regione di Kiev e di Chernihiv. Il ministro russo Shoygu ha affermato che le forze armate russe hanno raggiunto gli obiettivi principali della prima fase e che l’obiettivo primario rimane liberare il Donbass. La vice prima ministra ucraina Vereschuk ha annunciato che Russia e Ucraina hanno concordato l’apertura di tre corridoi umanitari, due interessano Mariupol e uno Melitopol». Tutto a posto? Niente affatto.
«L’intelligence americana conferma che ci sono stati dei movimenti di truppe coerenti con questi annunci, ma confermano pure che il lancio di missili ad ovest di Kiev è continuato», avverte Draghi. E conclude: «tutti desideriamo vedere uno spiraglio di luce, ma dobbiamo stare con i piedi per terra». Segue un lungo ma esplicativo silenzio. Non a caso, proprio ieri, Vladimir Putin ha firmato un decreto per la coscrizione obbligatoria di 134 mila giovani russi, a partire da oggi fino al prossimo luglio. Non proprio un annuncio di pace.
Ma la conferenza stampa è stata anche l’occasione per sottolineare i risultati positivi della reazione occidentale contro la Russia. In primo luogo, le sanzioni. «Funzionano», dice Draghi con evidente soddisfazione. In secondo luogo, la resistenza locale. «Alla pace si arriva se l’Ucraina si difende”, assicura. Insomma, «c’è desiderio di andare avanti presto, ma è anche presto per superare lo scetticismo».
Nel corso della telefonata Vladimir Putin ha accolto la disponibilità dell’Italia a svolgere un ruolo attivo nella ricerca della pace. Un dato rilevante perché – precisa ancora il premier – sul ruolo di garante del nostro paese i due contendenti concordano. Ovviamente è ancora troppo preso per definire il contenuto delle garanzie che l’Italia dovrebbe contribuire a far rispettare. «Dipenderà dal risultato dei negoziati, ma l’aspetto positivo è che l’Italia è richiesta come garante sia dall’Ucraina sia dalla Russia», dice Draghi.
Un altro protagonista rilevante sarà la Cina. «Potrebbe diventare un protagonista di prima grandezza nell’avvicinare le due parti nel processo di pace. Bisogna vedere se queste aspettative saranno confermate dall’indirizzo del presidente Xi Jinping», assicura Draghi, anticipando uno dei temi del vertice tra il gigante asiatico e i paesi dell’Ue che si svolgerà oggi.
Il presidente del Consiglio ha poi ragionato a lungo di spese militari, spinosa questione che nei giorni scorsi lo ha visto protagonista di un duro scontro con Giuseppe Conte e che ieri è stata al centro del dibattito nell’aula del Senato. Il tema va inquadrato nella cornice della difesa europea. Draghi suggerisce tre passaggi. Primo: perché parliamo di difesa europea? Risponde: «Non solo per gli eventi attuali, ma anche perché questi richiamano l’importanza dell’unione politica. La costruzione di una difesa europea è il passo più importante verso la costruzione di una unione politica perché comporta l’accettazione di una politica estera comune».
La difesa comune europea significa che “tutti noi saremo alleati per sempre e per un continente come l’Europa sarebbe l’obiettivo più grande mai raggiunto. Bisogna andare su questa strada. L’Italia ne è sempre stata convinta fin dai primi anni 50 quando Alcide De Gasperi invocò la costruzione di una difesa europea. Allora non ci si riuscì», ricorda Draghi.
Il secondo passaggio è la Bussola strategica approvata dal Consiglio europeo. «Un bellissimo progetto” che si sostanzia nella creazione di un corpo di intervento rapido di 5mila soldati. “È un primo passo, ma è un piccolo passo», riconosce il premier. Terzo e ultimo punto: è necessario superare l’attuale sistema di decisioni nazionali singole. «Se siamo seri serve fare subito un coordinamento e capire chi spende, quanto si spende e per che cosa si spende. Non è uno sforzo impossibile. Bisogna chiedere che la Commissione lo faccia», spiega. E avvisa: «Se non siamo seri è meglio non parlarne più perché è un obiettivo talmente esistenziale per l’Europa che non va preso alla leggera».
Infine, a proposito dell’aumento delle spese militari al 2%, nel rispetto degli accordi con la Nato, Draghi getta acqua sul fuoco: la scadenza del 2028, già decisa dal ministro della difesa Lorenzo Guerini, coincide con quella richiesta dal M5s. D’altra parte, la fase di fibrillazione legata al voto interno dei grillini per acclamare il proprio “capo politico” è finita. E così la sceneggiata sulle spese militari è già chiusa.
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