Ursula von der Leyen e Vladimir Putin
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A metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo Jean Monnet, insieme a Robert Schuman, il vero padre fondatore del processo di integrazione europeo, non aveva dubbi: l’Europa si costruirà nelle crisi. Il salto di qualità compiuto con i Trattati di Roma è in larga parte debitore del volontarismo francese successivo all’umiliazione subita da Parigi (e Londra) nella crisi del canale di Suez del 1956.
Allo stesso modo il via libera tedesco al Sistema monetario europeo, sul finire degli anni Settanta, è il frutto della crisi del modello di Bretton Woods e delle successive turbolenze monetarie. E ancora, la nascita della moneta unica è la chiusura del cerchio pacifico della grande crisi finale della Guerra fredda, seguita dall’immediata e non scontata riunificazione tedesca.
Se dalla storia arriviamo alla pandemia attuale, inutile dimenticare che se nei prossimi anni si arriverà a una mutualizzazione del debito nello spazio dell’area euro, tutto ciò sarà legato al rischio di un crollo dell’edificio comunitario proprio sull’onda dell’emergenza sanitaria.
VERSO L’UNIONE VERA
Ebbene, mentre si attende qualche notizia positiva dal summit Ucraina-Russia, è impossibile non notare l’esito paradossale dell’ultimo azzardo dello “zar” del Cremlino: avere spinto l’Unione europea e i suoi Paesi membri a tramutarsi, con i fatti più che con le parole, in un soggetto (e non più rimanere un oggetto) delle relazioni internazionali globali.
Il paradosso è evidente: Putin si è tramutato nel migliore federatore dell’Europa, ha contribuito a eliminare le differenze di sensibilità all’interno della Ue e sembra aver spinto anche i più riottosi Paesi membri a unirsi di fronte alla minaccia strategica più grave dal 1945.
Di fronte a quello che Ursula von der Leyen ha definito un «momento decisivo» la Ue ha elaborato sanzioni vere, non quelle fittizie del dopo 2014. L’arma del blocco dei pagamenti utilizzando il sistema Swift è ora ben più di un’ ipotesi. Così come concreti sono i tentativi per uscire definitivamente dal ricatto del gas, provando una diversificazione nei fornitori, che nel medio periodo potrebbe dare ottimi risultati.
Si è spinto molto anche sul fronte del contrasto alla propaganda putiniana (con il blocco dei siti di informazione pro-russi), così come sulla chiusura dello spazio aereo europeo per tutti i velivoli riconducibili alla federazione russa.
L’ERA NUOVA
Ma il tornante davvero decisivo è un altro e potrebbe aprire scenari positivamente impensabili, inaugurare quella “era nuova” di cui ha parlato il cancelliere tedesco Scholz. Si tratta di un doppio tornante, europeo e tedesco, l’uno connesso all’altro, in realtà il primo strettamente dipendente dal secondo.
Il via libera all’aiuto militare diretto all’Ucraina da parte dei ministri degli Affari esteri dei 27 Paesi membri può essere definito come epocale. Siamo di fronte alla concretizzazione, in atto, di un vero embrione di politica di difesa europea. È il volontarismo politico che anticipa la progettazione e l’elaborazione teorica.
Qualcuno potrà affermare, legittimamente, che si tratta soltanto di una reazione istintiva. Di fronte al baratro e al rischio della guerra nella sua versione più brutale e tradizionale, ci si spinge laddove dal fallimento della Comunità di Difesa del 1954 non ci si era più azzardati ad arrivare.
Ma a questo passaggio si deve aggiungere la presa di posizione di Scholz che, di fronte al Bundestag, ha annunciato l’aumento delle spese militari tedesche sino a superare la soglia simbolica del 2% (oltre il minimo fissato dall’Alleanza Atlantica e costantemente richiesto da tutti i presidenti americani da Nixon in avanti). Con questa decisione si va ben oltre quella di qualche giorno fa relativa alla sospensione delle autorizzazioni per Nord Stream 2. La relazione tra dimensione militare e politica è un tema chiave per l’identità tedesca dalla nascita del Reich del 1871, ma anche per la possibilità concreta che lo spazio dell’integrazione europea possa assumere una postura strategica.
Sottolineare il carattere storico della congiuntura non deve spingere a giudizi avventati. Non si vogliono nascondere gli errori euro-occidentali dell’ultimo ventennio, che partono dall’incapacità di ancorare la Russia post-sovietica a una coerente architettura di sicurezza europea e giungono sino all’accondiscendenza mostrata a partire dai fatti della Georgia sino a quelli della Crimea, proprio nei confronti di Mosca. Un crescendo fatto di incomprensioni e sottovalutazioni che ha raggiunto l’acme nel disimpegno statunitense dall’Afghanistan lo scorso agosto e nell’assenza di concrete iniziative sanzionatorie nei confronti di quella Turchia che erodeva dall’interno la ragion d’essere stessa dell’Alleanza Atlantica.
IL PRIMATO TEDESCO
Parafrasando il Macron del 2019, di fronte a una Nato in morte cerebrale, lo zar di Mosca si è ulteriormente sentito libero di agire con impunità, accreditando una logica di distruzione dell’equilibrio internazionale di matrice egemonica e pre-vestfaliana. Oggi, però, ci troviamo di fronte a una pagina almeno potenzialmente nuova. Un compattamento non solo simbolico ma anche concreto da parte dell’Occidente euro-atlantico e, all’interno di questo, dell’Europa comunitaria. E il carattere storico del passaggio si concretizza in larga parte per il primato politico tedesco all’interno di questa svolta.
Raymond Aron amava affermare: «Credo nella vittoria finale delle democrazie contro le dittature. A patto che le prime ne abbiano davvero la volontà». Paradossalmente, la drammatica aggressione russa un primo effetto positivo potrebbe averlo provocato: fare crescere i germogli del volontarismo proprio al centro dell’Europa.
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