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Putin durante il discorso tv con il quale ha riconosciuto le repubbliche separatiste

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Riunioni ad alto livello, annunci di accordi, loro smentite, invettive, accuse e minacce sulla crisi ucraina, scambi di cannonate e immagini di vecchi, donne e bambini in fuga nel Donbass continuano a riempire le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Tutti dichiarano di volere la pace. Purtroppo, per la pace bisogna essere in due. Per la guerra basta uno solo. Nessuno sa di quale pace si parli. Essa coincide sempre con i propri interessi e valori.

Sul tavolo del “balletto diplomatico” in corso non vi sono per ora proposte concrete, cioè in grado di costituire la base per un negoziato. Nessuno sembra disposto a cedere qualcosa per ottenerne in cambio un’altra.

LE INCERTEZZE DI VLADIMIR

Nonostante tutto, Putin ancora spera che le alleanze occidentali diano segni di divisione e di debolezza. Sa che il punto centrale delle sue proposte – che consistono non tanto nell’esclusione permanente dell’Ucraina dalla Nato, quanto nel ridimensionamento della presenza dell’Alleanza nei suoi membri dell’Europa orientale e baltica – non è negoziabile da parte dell’Occidente. Ha verosimilmente sottovalutato la coesione e la fermezza degli Usa e della Nato. La radicalità delle sue richieste, unita al ricatto del minaccioso schieramento di forze sui confini ucraini, ha avuto un effetto boomerang. Ha consolidato l’Alleanza.

Anche Macron, che nel 2019, ne aveva prognosticato la “morte cerebrale”, è divenuto paladino dell’ortodossia atlantica. Analoga trasformazione è avvenuta in Germania. Scholz ha annacquato la Ostpolitik, storico cavallo di battaglia dell’Spd.

Putin non sa come cavarsi dall’impiccio in cui si è ficcato. Non ho mai creduto che volesse effettuare un attacco massiccio all’Ucraina. Ammesso che disponga in loco di 200.000 soldati, gli sarebbe impossibile occupare un paese di 44 milioni di abitanti, con un territorio di 600.000 kmq. I costi e le perdite sarebbero proibitive. Gli ucraini hanno organizzato una difesa operativa del territorio, del tipo Stay Behind o “Gladio”, per una guerriglia prolungata contro l’occupante. Un raid su Kiev potrebbe far cadere il governo Zelensky, ma accelererebbe la marcia dell’Ucraina verso la Ue. Più improbabile è anche la possibilità che lo possa far cadere con un colpo di Stato o con una serie di attentati.

Avendo “strafatto” ormai, gli è divenuto difficile anche solo annettersi le regioni secessioniste filorusse del Donbass, come vorrebbe la Duma. Questo spiega il fatto che, contrariamente al decisionismo di cui dà solitamente prova, la sua condotta della crisi è incerta. Forse continua a sperare nella divisione dell’Occidente. Forse sin dall’inizio ha tentato un bluff. Contrariamente a quanto sperava, l’Occidente ha reagito con fermezza. Addirittura Svezia e Finlandia parlano d’entrare nella Nato. La seconda ha deciso di comprare gli F-35.

La Cina, convitato di pietra in tutta la crisi ucraina, non l’ha sostenuto, come di certo Putin sperava. Come nel caso dell’annessione della Crimea, che non ha mai accettato, nel comunicato congiunto fra Putin e Xi Jinping del 4 febbraio scorso, non viene menzionata l’Ucraina. Pechino ha ottimi rapporti con Kiev. Importa dall’Ucraina decine di milioni di tonnellate di granaglie. Inoltre, Kiev è un pilastro dell’accordo “17+1”, ponte della Cina nell’Europa orientale, balcanica e baltica verso i ricchi mercati di quella occidentale.

Le minacce di Putin accelerano la possibilità che l’Ucraina si europeizzi e, forse anche, che entri progressivamente nella Ue. È questa un’eventualità che ritengo molto più pericolosa per il regime di Putin che la sua ammissione alla Nato, che nessuno – eccetto forse la Polonia – è disposto ad accettare. L’entrata di Kiev nella Nato non modificherebbe nella sostanza la sicurezza della Russia. Essa continuerà a essere basata sulle armi nucleari. Nessuno sarebbe mai tanto matto da sfidarla, dato anche che la dottrina militare russa ne prevede un first use quasi normale in caso di attacco diretto.

L’accesso alla Ue, con l’inevitabile aumento del benessere e del rispetto dei diritti umani e civili e con la riduzione del potere degli oligarchi (molti dei quali sono filorussi), costituirebbe una sfida mortale per l’autoritarismo e la cleptocrazia dominanti in Russia. Fomenterebbe l’opposizione al regime e, al limite, anche una “rivoluzione colorata”. In sostanza, mi sembra che Putin, insistendo sulla non ammissione dell’Ucraina alla Nato, sbagli obiettivo.

LE CONTROMOSSE OCCIDENTALI

Un’analoga resistenza a qualsiasi concessione alla Russia, si riscontra da parte degli Usa. I motivi della Casa Bianca sono però del tutto differenti da quelli del Cremlino. Il “povero” Biden, in crisi nell’elettorato e umiliato dai vari flop e insuccessi che ha accumulato, vede nella questione Ucraina l’occasione di riscuotere qualche applauso. Non vuole perdere l’occasione di mortificare Putin, non concedendogli neppure “l’onore delle armi”, che gli consenta di salvare la faccia e tornare a Mosca senza danni maggiori. Forse ha addirittura ottenuto il tacito supporto della Cina.

I centri di studi strategici cinesi all’unisono – di certo per ordine del Pcc – affermano che la crisi di Taiwan non c’entra nulla con quella dell’Ucraina. La maggiore vulnerabilità di Biden per continuare a “fare il duro” è rappresentata dal fatto che le sanzioni minacciate a Mosca, in caso di attacco, verrebbero pagate soprattutto dall’Europa e in modo difforme fra i suoi vari Paesi. È quanto già avvenuto per quelle imposte da Washington all’Iran.

La posizione italiana è particolarmente grave. Non solo perché con il “no triv” abbiamo rinunciato a parte del gas nazionale e con il “no” ai rigassificatori non possiamo utilizzare l’Lng proveniente dal Qatar e dagli Usa, ma anche per il vizio nazionale di ritenerci più furbi degli altri. Nel caso particolare, taluni hanno pensato di poter escludere il gas da ogni regime sanzionatorio nei riguardi della Russia “per non lasciare al buio e al freddo mamme e bambini”. È una sciocchezza.

Primo, perché nessuno si è chiesto attraverso quali Paesi, in caso di conflitto, il gas russo potrebbe arrivare in Italia. Secondo, perché in fatto di sanzioni, gli Usa divengono feroci. Adotterebbero sanzioni extraterritoriali contro le società straniere – di Paesi alleati o neutrali, non ha alcuna importanza – che violassero il regime sanzionatorio deciso da Washington. Non abbiamo alternative che quella di essere fedeli alle nostre alleanze.

A parer mio, sarebbe anche opportuno evitare di affrontare problemi più grandi di noi. Mi riferisco alla ventilata mediazione di Draghi per organizzare un incontro fra Putin e il premier ucraino Zelensky. Esso potrebbe solo farci conoscere nuove invettive che si scambierebbero i due leader. Se ritenessero utile incontrarsi, lo farebbero da soli senza aspettare noi.

Solo una trattativa “Helsinki 2.0” sulla nuova architettura di sicurezza paneuropea – del tipo di quella proposta su Foreign Affairs da Michel McFaul, già ambasciatore di Obama a Mosca – potrebbe allargare sufficientemente il negoziato per consentire a tutti di ottenere qualche risultato positivo, da sbandierare come vittoria alla propria opinione pubblica. Ma essa può essere decisa solo da Biden e da Putin. Non può esserlo da nessun politico europeo.

Nell’attesa che possano mettersi d’accordo, dobbiamo rassegnarci al fatto che sul confine ucraino esista una “guerra congelata” e che qualche cannonata continui a essere scambiata, augurandoci che tutti mantengano i nervi saldi e non combinino guai.


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