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In Italia si è giustamente preoccupati per l’aumento delle bollette energetiche e del gas. Ma le conferenze stampa del nostro governo sono lunari. Nessuno ieri ha sollevato neppure l’interrogativo di quanto accade all’Eni in Libia, dove, come ampiamente previsto, le elezioni sono state rinviate. Eppure la faccenda dovrebbe interessarci.
In Libia le Guardie petrolifere hanno imposto la chiusura di tre campi di idrocarburi. Oltre a El Sharara, il giacimento più grande del Paese, c’è Wafa, co-gestito da Eni e rilevante per l’Italia. Il gas prodotto a Wafa arriva in Italia attraverso il gasdotto Green Stream: la tubatura, attraversando il mar Mediterraneo, collega l’impianto di trattamento di idrocarburi di Mellitah, sulla costa della Libia, a Gela, in Sicilia.
INSTABILITÀ LETALE
Il Green Stream ha una capacità di circa 8 miliardi di metri cubi all’anno. Le attività sono state interrotte anche nel campo petrolifero di Hamada, gestito da Agoco, una sussidiaria di Noc, e nel campo di condensati di Wafa: in quest’ultimo giacimento opera Mellitah Oil & Gas, una joint venture paritaria tra Eni e Noc.
Assieme alla Russia e all’Algeria, la Libia è uno dei principali fornitori di gas naturale e prodotti petroliferi dell’Italia. Ma per noi questo sembra un dato secondario.
Insomma, se arriva meno gas in Italia dipende anche dall’instabilità in Libia. Ieri il presidente del consiglio Draghi ha affermato che «l’Italia e l’Europa stanno lavorando per la stabilizzazione del Paese». Come no: è dal 2011, con l’attacco a Gheddafi, che Paesi come la Francia “lavorano” per la stabilità della Libia. A noi non sembra. Perché la Francia avrà pur firmato il Patto del Quirinale, ma non pare proprio che stia agendo per venire in aiuto dell’Italia, né per il gas né per la questione dei migranti.
Il Parlamento libico, intanto, ha annunciato ufficialmente che tenere le elezioni presidenziali fissate per domani «è impossibile». Il voto che avrebbe dovuto scegliere il nuovo capo dello Stato libico viene quindi ufficialmente rinviato, si parla del 24 gennaio, ma tutto è ancora in alto mare. È partito un nuovo negoziato politico. Un negoziato che vede emergere un patto di consultazione fra il generale Khalifa Haftar e due politici misuratini, Fathi Bashaga e Ahmed Maitig.
La comunicazione del rinvio del voto è contenuta in una lettera che il deputato Al Hadi Al Sagheir, capo della commissione elettorale, ha inviato al presidente del Parlamento, Agila Salah. Al Sagheir scrive che «è impossibile tenere le elezioni come previsto il 24 dicembre», ma non specifica poi una data alternativa e non indica se il parere del Parlamento è che le elezioni vadano cancellate del tutto oppure convocate in maniera diversa, soprattutto dopo aver fatto chiarezza sulle diverse leggi che regolano in maniera confusa il voto e la candidabilità dei leader politici libici.
LA NUOVA FASE POLITICA
L’annullamento del voto era nei fatti ormai da settimane. Mancavano atti formali per due motivi. Primo: l’attuale situazione legislativa in Libia non rende chiaro chi sia tenuto a controllare il processo elettorale (la Commissione elettorale, il Parlamento, la Corte suprema?). Secondo: per settimane nessuno ha voluto prendersi la responsabilità di fare l’annuncio, per evitare di essere associato al fallimento.
L’annullamento del voto ha coinciso con l’apertura di una nuova fase: in Egitto si sono incontrati il maresciallo Khalifa Haftar, l’ex vicepresidente Ahmed Maitig e l’ex ministro dell’Interno Fathi Bashaga. Gli ultimi due erano al vertice del governo guidato dal Fayez Serraj che nell’aprile 2019 venne attaccato proprio dalle milizie del generale Haftar che si erano spinte fino alle porte di Tripoli. Già il fatto che la riunione si sia tenuta in Egitto senza che l’Italia ne fosse informata la dice lunga su quanto poco contiamo ormai in Libia.
Per un anno e mezzo Haftar ha provato in ogni modo a entrare nella capitale. Adesso l’incontro fra i due politici dell’Ovest con Haftar stesso e con alcuni candidati dell’Est è un segnale di riconoscimento politico che apre un nuovo percorso politico in Libia. Favorito nel momento decisivo dall’Egitto.
Al termine dell’incontro Fathi Bashaga, legatissimo alla Turchia, già ministro dell’Interno a capo della risposta militare all’esercito di Haftar, ha fatto una dichiarazione presentata come comune (evidentemente concordata in Egitto dai tre leader libici). Bashaga, anche a nome di Maitig e di Haftar, dice che la riconciliazione nazionale è un processo «irreversibile e inclusivo e la volontà degli elettori va rispettata».
’incontro, secondo gli analisti libici, ha un primo, immediato risultato: il 24 dicembre, con o senza il voto, scadrà il mandato del governo presieduto da Abdulhamid Dbeibah. Il premier era diventato un rivale pericolosissimo sia per Haftar che per i due politici dell’Ovest. Due gli obiettivi comuni: silurare Dbeibah e Saif Gheddafi. Il patto sottinteso fra i tre leader è che Dbeibah andrà sostituito con un altro primo ministro.
IL NODO GHEDDAFI
Un secondo punto all’ordine del giorno di questa nuova “triplice alleanza” libica è la candidatura di Saif al Islam Gheddafi. I sondaggi hanno confermato che il figlio del colonnello potrebbe ricevere un forte sostegno in elezioni libere. Ma Saif al Islam è sotto accusa alla Corte penale dell’Aja, è in una condizione giudiziaria incerta in Libia e, soprattutto, viene visto come il nemico dall’ala radicale e militante dei rivoluzionari libici. Per cui il nuovo, potenziale governo che potrebbe nascere dall’incontro di Bengasi lavorerà per affossare anche questa candidatura.
E tutto questo avviene senza che a Roma si dica una parola, come se la Libia fosse lontana mille anni luce.
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