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Joe Biden

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Per la prima volta Biden ha messo fine all'”ambiguità strategica” su Taiwan annunciando pubblicamente che gli Stati Uniti difenderanno l’isola da un’eventuale aggressione della Cina. Nel corso di un dibattito alla Cnn Biden ha affermato “che gli Usa hanno preso un sacro impegno per quel che riguarda la difesa degli alleati della Nato in Canada e in Europa e vale lo stesso per il Giappone, per la Corea del Sud e per Taiwan”.

Torna ad agitarsi lo spauracchio di una terza guerra mondiale e comunque di una nuova guerra fredda Washington-Pechino, il tutto mentre il leader cinese Xi Jinping, non sembra intenzionato a voler mollare sulla questione Taiwan e ha definito come “inevitabile” una riunificazione della provincia con la Cina. Come se non bastasse, l’ambasciatore americano a Pechino, Nicholas Burns, in audizione al Congresso ha definito la Cina come “la minaccia numero uno per gli Stati Uniti”, definendola poi “una potenza aggressiva e prepotente” per poi concludere rimarcando che “le sue politiche espansionistiche e repressive devono cessare”. “La sua è una mentalità da guerra fredda – è stata la replica più che irritata da parte di Pechino alle parole dell’ambasciatore – nessuna forza straniera deve interferire con gli affari interni della Cina”.

Ma non sono queste schermaglie le uniche avvisaglie di una tensione crescente: le potenze mondiali stanno proseguendo la loro corsa ai nuovi missili ipersonici, mentre la Corea del Nord ha ripreso i propri test scatenando l’ira del Giappone. Da quando si è insediato alla Casa Bianca, Joe Biden probabilmente è stato il Presidente che più ha cercato di dialogare con Xi Jinping. Questo non vuol dire che i rapporti tra Washington e Pechino si siano distesi anzi, come nel caso dell’indagine sull’origine del Covid, la frizione tra i due Paesi è palpabile.

La questione Taiwan di conseguenza non è di poco conto, anche perché gli Stati Uniti forniscono armi all’isola nel quadro del Taiwan Relations Act, il quale prevede che gli Usa aiutino Taipei nella difesa. Di recente Taiwan ha lanciato l’allarme di una possibile invasione militare della Cina su larga scala entro il 2025. Se veramente gli Stati Uniti dovessero a quel punto scendere in difesa di Taiwan, una guerra potrebbe essere inevitabile. In questo scenario di grande tensione, da Washington arriva anche un’altra notizia: si è concluso con un fallimento il lancio di un missile ipersonico in Alaska a causa di un malfunzionamento. In precedenza invece i test compiuti da Russia e Cina, rispettivamente con i missili ipersonici chiamati Zircon di Mosca e Lunga Marcia, si sono conclusi con un successo. Uno smacco non di poco conto per gli Stati Uniti.

Per la verità lo stesso Biden cerca di smorzare la tensione. “Non voglio una guerra fredda con la Cina”, ha affermato, aggiungendo: “Ho parlato e passato più tempo con Xi di qualsiasi altro leader al mondo. Ma voglio che la Cina capisca che non faremo passi indietro e non cambieremo nessuno dei nostri punti di vista”. Biden, parlando dell’esercito Usa come del “più potente della storia”, ha assicurato di non essere preoccupato per un possibile conflitto militare con la Cina, ma piuttosto da un’escalation e ha sostenuto che bisogna “preoccuparsi” se il gigante asiatico o altri Paesi come la Russia saranno coinvolti in “attività che li mettano in una posizione in cui potrebbero commettere un grave errore”.

Vale forse la pena di ricordare come nasce la questione di Taiwan. Nel 1949 la vittoria dei comunisti di Mao obbliga il generale Chiang Kai-shek e il suo Kuomintang a rifugiarsi sull’isola, tornata nel 1945 sotto la sovranità cinese dopo 50 anni di colonialismo giapponese. Si stima che quell’anno quasi due milioni di rifugiati cinesi tra civili, militari e personale governativo sbarcarono sull’isola portando oro, valuta straniera e oggetti di valore trafugati dalla Città Proibita. L’8 dicembre 1949 Taipei venne riconosciuta come capitale provvisoria della Repubblica di Cina in esilio.

C’erano dunque la “Cina rossa” e la “Cina libera”. Nello scenario da guerra fredda il rapporto Pechino-Taipei rischiava di destabilizzare il già fragile equilibrio regionale. Taiwan aveva la benedizione degli Stati Uniti, mentre dall’altra parte dello stretto Mao faticava a crearsi nuovi alleati.

Il 1971 è l’anno della svolta, quando Taipei perde il seggio alle Nazioni Unite a favore della Repubblica popolare cinese. L’umiliazione per la classe dirigente taiwanese è grande ma la spazio di manovra è ridotto, ancor di più nel 1978, quando il presidente Carter annuncia la fine dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Taiwan. L’isolamento internazionale si accompagna però a una rapida industrializzazione che fa di Taiwan una della quattro tigri asiatiche, insieme a Corea del Sud, Hong Kong e Singapore. L’evoluzione politica interna porterà alla fine della legge marziale nel 1987 e successivamente, nel 1996, alle prime elezioni dirette con la vittoria di Lee Teng-hui. Solo quattro anni dopo, nel 2000, un’altra scossa politica colpisce l’isola. Chen Shui-bian del Partito progressista democratico vince le elezioni, mettendo la parola fine a oltre 50 anni di Governo ininterrotto del Kuomintang.

La fine degli anni Ottanta è segnata da un’evoluzione delle relazioni tra Pechino e Taipei, almeno in termini economici e di scambi commerciali. Nel 1992 viene stabilito il Consensus nel quale entrambe le parti concordano di aderire al principio di “una sola Cina”, ma divergendo sul significato comune da attribuirle. Un “consenso senza consenso”, per usare le parole di Lee Teng-hui.

Da allora il Consenso del 1992 e il principio di “una sola Cina” sono i punti sacri di Pechino per intavolare qualsiasi trattativa per risolvere pacificamente la questione Taiwan. Il disegno di Xi Jinping è chiaro: riportare la “provincia ribelle” sotto il controllo di Pechino entro il 2049, restituendo così al Paese la sua passata gloria imperiale.


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