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Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan

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Il crollo della lira turca sui mercati è la conseguenza della megalomania di Erdogan e della sua insipienza. La Erdogan-economy si sta sgretolando, come era del resto prevedibile, e il Covid ha dato il colpo di grazia.

In realtà la Turchia, che pure negli ultimi vent’anni ha visto crescere la sua economia in maniera esponenziale, sta passando da una crisi all’altra per un motivo molto semplice: è un’economia drogata. La base industriale non è così forte come si vuol far credere, la bilancia commerciale è sempre in deficit, i debiti delle imprese ammontano a 300 miliardi di dollari e il denaro a bassi tassi di interesse ha alimentato un sistema dove tutto si paga a credito. Questo è il Paese degli assegni post datati.

ECONOMIA DROGATA

Fu la tremenda crisi economica del 1999-2001 che nel 2002 proiettò al potere Erdogan e il suo partito Akp. Oggi una nuova crisi finanziaria, con il crollo della lira turca, rischia di minare un ventennio di predominio del Sultano. Vengono al pettine i nodi di un’economia speculativa che ha puntato sul denaro a buon mercato, il credito al consumo, l’indebitamento delle imprese, le faraoniche opere pubbliche realizzate senza copertura, la colata di cemento dei grandi resort alberghieri e una bolla immobiliare che nessuno sa più come pagare.

Il crollo del turismo per il Covid, che generava la maggior parte delle entrate valutarie, e il calo drastico degli investimenti dall’estero durante la pandemia hanno assestato un colpo decisivo. La Turchia affluente e corteggiata dai mercati è un pallido ricordo. Come il Libano, anche la Turchia vive una sorta di agonia economica e finanziaria che è anche ovviamente politica.

 Già in crisi di consensi, Erdogan adesso sta facendo di tutto per recuperarli perché sempre di più si fa strada la consapevolezza nella popolazione e nelle élite economiche che le imprese militari in Siria, Libia, nel Caucaso e le tensioni nel Mediterraneo orientali con l’Europa siano diventate soprattutto armi di distrazione di massa per gli 80 milioni di turchi precipitati nella peggiore crisi economica dell’ultimo ventennio. Per di più c’è il contrasto tra Erdogan e Biden, irritato per gli accordi di Ankara con Mosca sugli S-400 e gli affari nel gas.

Erdogan lotta come un leone in gabbia e in questi mesi sta provando tutto e il contrario di tutto: prima, dopo anni di lassismo, ha tentato la via dell’austerità e del contenimento dell’inflazione, adesso torna sulla strada del basso costo del denaro che però i mercati hanno accolto assai male con il crollo della lira su dollaro ed euro fino alla chiusura della Borsa di Istanbul per eccesso di ribasso.

L’ULTIMO ATTO

La crisi viene da lontano, ma a innescare l’ultimo atto di sfiducia dei mercati è stato il licenziamento del governatore della Banca centrale Naci Agbal, nominato soltanto cinque mesi fa.

A sostituirlo è stato chiamato Sahap Kavcioglu, economista, ex parlamentare dell’Akp, editorialista di Yeni Safak, che aveva molto criticato le decisioni dell’ex governatore. Agbal infatti giovedì scorso aveva promulgato una stretta di politica monetaria aumentando il tasso d’interesse di riferimento al 19%, per contrastare l’inflazione e sostenere la lira.

 La rimozione di Agbal è stata motivata dalle sue scelte, vista la contrarietà del presidente Erdogan ai tassi di interesse elevati. Agbal era stato chiamato alla guida della Banca centrale in novembre: la lira turca aveva toccato il record negativo di 8,58 sul dollaro Usa e con lui aveva rapidamente riacquistato circa il 15% del suo valore sul dollaro. È da notare che in un paio di anni la lira turca aveva già perso il 40% del suo valore, aumentando il costo dell’indebitamento e prosciugando le riserve valutarie bruciate sui mercati per difenderne la quotazione. Una situazione insostenibile. L’ascesa di Agbal era stata così accompagnata dalle dimissioni al ministero delle Finanze, il genero di Erdogan, Berat Albayrak, invischiato in tutti gli affari della repubblica.

PERDITA DI CONSENSO

Ma dopo aver stabilizzato la situazione, è tornata l’insofferenza di Erdogan verso le politiche restrittive della Banca centrale e il presidente ha silurato il governatore. Erdogan è infatti ostile agli alti tassi di interesse, ritenendo, contrariamente alle teorie economiche tradizionali, che peggiorino l’inflazione.

 Messo sotto pressione dai mercati e dai disinvestimenti esteri già nel 2013, all’epoca della rivolta di Gezi Park, Erdogan allora aveva definito le agenzie di rating «la lobby dei tassi di interesse». Ma l’economia tirava ancora e i soldi degli europei e delle monarchie del Golfo come il Qatar coprivano le magagne strutturali di un sistema fondato sul denaro a buon mercato per le imprese legate all’Akp, le cosiddette “Tigri anatoliche”: queste sono lo zoccolo elettorale di Erdogan che alle ultime amministrative ha perso sia Istanbul che Ankara, un segnale inequivocabile di perdita di popolarità.

LE MANI SUL PAESE

Più che alla “lobby dei tassi di interesse” accusata da Erdogan, la crisi turca è dovuta alla megalomania di un leader che ha voluto non solo cambiare il volto del Paese ma ha voluto metterci anche le mani sopra: uno dei più grandi conglomerati è la Cialik Holding, società che ha goduto di facile credito, presieduta proprio dal genero del presidente.

 Adesso non ci sono soldi per ripagare i debiti contratti per fare ponti giganteschi o aeroporti, ormai mezzi vuoti, come quello di Istanbul da 29 miliardi. E ora chi se li compera se non rendono utili? Ma i cinesi, ovvio, che oltre a mandare i vaccini stanno acquistando a prezzi scontati i ponti (Yavuz Sultan), i porti dei container (Mar di Marmara) e persino le piattaforme di e-commerce (Ali Baba).

Insomma, qualcuno che ci guadagna da una crisi si trova sempre. La Turchia sta attraversando una delle situazioni economiche più disastrose della sua storia repubblicana. L’indebitamento di molte delle imprese più grandi che muovono l’economia sono sull’orlo del baratro. Ed Erdogan annaspa come non mai.


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