Valdis Dombrovskis, vice-presidente della Commissione europea
5 minuti per la letturaDombrovskis non è un cognome che suscita entusiasmi quando lo si sente pronunciare nel nostro Paese. In particolare, sul finire della passata legislatura europea, gli attacchi all’Italia non sono mancati e l’allora Commissario europeo alle finanze aveva mostrato uno “zelo” particolare nel rivolgersi al nostro Paese e alle sue croniche inadempienze sul fronte del debito, del deficit e delle disparità tra aree regionali.
Ebbene il Dombrovkis oggi vicepresidente della Commissione ha offerto nel suo recente intervento a Strasburgo, un ragionamento ad ampio raggio con numerosi punti di interesse per l’Italia.
Prima di tutto Dombrovskis si è soffermato sul carattere “eccezionale” della pandemia e sulla necessità di contrapporvi una risposta altrettanto “eccezionale”. Il dispositivo per la ripresa e la resilienza, vero centro di Next Generation Eu, è lo strumento deputato a far riguadagnare all’Ue il terreno perduto ma anche a far rinascere dalle ceneri del Covid19 una nuova Unione. Insomma, ad operare dovrebbe essere un mix virtuoso con il doppio obiettivo di curare il presente e garantire il futuro, una trasformazione dell’emergenziale in strutturale. Con tre passaggi cardine.
Prima di tutto il completamento di quella unione economica e monetaria avviata a Maastricht e bloccatasi appunto al monetario. In secondo luogo, il dispiegarsi, finalmente, di una politica industriale europea. Il Covid19 è stato un potente rivelatore della totale assurdità utopica delle cosiddette delocalizzazioni che, spinte sempre più verso est, hanno finito per rendere il Continente europeo industrialmente dipendente da quello asiatico. E infine, per dare un senso al concetto di “sovranità europea”, una embrionale, ma significativa, tensione verso forme di maggiore integrazione, anche differenziata o flessibile, sui temi della politica estera e di difesa.
La “lezione di Dombrovskis”, non molto considerata dai media italiani, si dispiega poi lungo tre assi principali.
Prima di tutto l’obiettivo è quello di rassicurare senza però mortificare la ripresa. Ecco il riferimento alla conferma a tutto il 2022 della clausola di salvaguardia, accompagnato dal richiamo alla necessità che i piani attesi per la fine di aprile presentino un equilibrio costante tra investimento e riforma. Il punto di vista è chiaro: non vi sono margini per politiche economiche lassiste. La pandemia ha evidenziato molte delle storture dell’ortodossia applicata alla crisi dell’area euro ma non potrà necessariamente destrutturare il nucleo ordoliberale, vera essenza del processo di integrazione dalla metà degli anni Ottanta ad oggi. Chi lo crede possibile si sveglierà dal sogno e si ritroverà in un incubo.
Il secondo punto è parso altrettanto chiaro e l’interesse italiano dovrebbe essere massimo. Dombrovskis ha ribadito che dovrà essere scongiurata qualsiasi “corsa all’oro” o “assalto alla diligenza”. Il controllo si applicherà in maniera ferrea su eventuali frodi e in generale sulla gestione dei fondi una volta erogati. Anche qui il messaggio è chiaro: fine aprile è solo il primo gradino di una scala ben più lunga. Non si tratterà insomma solo di “fare i compiti a casa” e pianificare come “spendere la paghetta”, ma anche di come rendicontarla.
Il terzo punto è quello per certi versi più interessante e innovativo. Diciamo che il richiamo a “piani nazionali di ripresa che devono considerare le disparità regionali” implica un salto di scala a livello culturale. Il punto non è più soltanto quello riguardante la quantità e consonanza dei progetti, ma il loro tasso qualitativo applicato alle disparità all’interno di ciascuno Stato membro. Per il nostro Paese tutto ciò si condensa in un obiettivo principale: mostrare di possedere una strategia credibile per il Mezzogiorno.
Tale considerazione non deve però essere banalizzata né utilizzata come uno slogan passe-partout. Dal Piano Vanoni in poi, ciascuna compagine di governo della cosiddetta “Prima”, così come della solo immaginata e mai nata “Seconda” Repubblica, ha millantato di possedere una politica per il Mezzogiorno. Tra le molte attese che suscita il governo Draghi vi è anche questa determinante necessità di stabilire una netta discontinuità rispetto al passato proprio nella gestione dei fondi coesione nello specifico contesto del Sud del nostro Paese. Dombrovskis lo ha esplicitato, con quel tono da primo della classe che lo caratterizza. Il pungolo però potrebbe essere salutare, soprattutto per l’Italia. In un triplice senso.
Il riferimento alla coesione sociale e territoriale e al coinvolgimento delle autorità locali e regionali chiama in causa prima di tutto la fine di un certo “meridionalismo” paternalista e assistenzialista. Ma allo stesso tempo, e questo è il secondo decisivo punto che sottende il discorso di Dombrovskis declinato nel contesto italiano, la rimessa in discussione del decentramento federale del nostro Paese, che di fronte allo shock pandemico ha messo in evidenza tutte le sue degenerazioni, fatte di inefficienza nella gestione sanitaria e nel barnum dei piani vaccinali (senza generalizzare o sottostimando esempi virtuosi) e di leaderismo spregiudicato nella sua espressione politica. Ecco allora che, terzo punto e potenziale chiusura del cerchio, il piano di ripresa nazionale italiano non potrà prescindere da quella complessiva e mai nemmeno sfiorata modernizzazione istituzionale e burocratico-amministrativa più volte teorizzata e rincorsa, ma mai raggiunta da oltre quarant’anni a questa parte.
Insomma, quando il lettone Dombrovskis interviene da Bruxelles parla di Europa ma in realtà parla soprattutto di Italia. Perché se il Covid 19 è una sfida globale, Next Generation Eu è innanzitutto una scommessa per un’interdipendenza europea con il nostro Paese al suo centro, vera cerniera tra l’area euro-mediterranea e quella renana. Draghi è l’interprete migliore per portare il nostro Paese fuori dall’emergenza pandemica e verso questo ruolo di media potenza euro-mediterranea. Siamo abbastanza certi che questa volta, le parole del “duro” di Riga non saranno troppo dispiaciute all’inquilino di Palazzo Chigi.
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