Un momento dei drammatici scontri provocati dai sostenitori di Donald Trump
5 minuti per la letturaChi comanda negli Usa? E’ in atto negli Stati uniti uno scontro di legittimità sulla leadership uscente e su quella entrante che ha spaccato il Paese. Le immagini giunte da Washington sono simili a quelle delle rivolte balcanico-mediorientali o delle famigerate rivoluzioni “colorate” fomentate in questi anni proprio dagli americani.
E Trump somiglia sempre di più a Milosevic che dopo avere mandato per un decennio la gente al massacro fu arrestato in un grigio venerdì pomeriggio belgradese sotto la regia americana e della Cia acquartierata all’Hotel Hyatt: il vojvoda serbo fu portato via da una modesta jeep della guardia nazionale. Oggi in Usa c’è chi invoca il 25° emendamento per rimuovere Trump dall’incarico.
Il Venticinquesimo emendamento della 23 Usa prevede che il vicepresidente Usa possa assumere i poteri al posto del presidente, nel caso quest’ultimo muoia, si dimetta o venga rimosso. La procedura di rimozione deve essere approvata dalla maggioranza del governo, dal vicepresidente e notificata al Congresso.
La Costituzione prevede che la Camera dei rappresentanti si esprima con un voto a maggioranza qualificata di due terzi, nel caso il presidente si opponga alla propria rimozione: e questa maggioranza di due terzi non c’è perché una parte consistente del partito repubblicano si oppone e magari intende capitalizzare per il futuro questa situazione come il senatore Ted Cruz.
Abbiamo quindi un problema che potrebbe essere definito fascismo all’americana, che ha già provocato quattro morti, dozzine di feriti e una devastante perdita di credibilità del sistema Usa. E’ accaduto una sorta di nuovo 11 settembre, un atto di insurrezione di sapore golpistico, innescato da Trump, comandante in campo della maggiore potenza militare del mondo, colui che decide della pace o della guerra.
Siamo al secondo atto della destabilizzazione americana cominciata nel nuovo millennio: il primo fu l’”esportazione della democrazia” con guerre devastanti, dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia, il secondo è arrivato con la crisi di un intero sistema e di un Paese spaccato. L’11 settembre 2001 l’America perse la sua sicurezza per un attacco da fuori, il 6 gennaio 2020 ha capito in maniera drammatica di essere assai malata dentro.
La crisi era annunciata e non è esagerato dire, come del resto ha affermato lo stesso Biden, che si sia trattato di un atto di insurrezione che sa di tentativo golpistico. E’ inutile disquisire se quelli entrati armati nel Campidoglio di Washington siano una minoranza o una maggioranza, è ovvio che sono una minoranza militante e radicale: ma attenzione secondo i sondaggi di qualche settimana fa il 77% dei repubblicani, 73 milioni di persone che il 3 novembre hanno votato Trump, riteneva illegittima l’elezione di Joe Biden.
L’atto squadristico non doveva accadere se il Paese non fosse in mano, dai vertici ai suoi apparati, a dei dilettanti che si sono rivelati complici più o meno volontari di Trump. Nel clima incendiario che si era creato in questi giorni non era difficile prevedere che a Washington e nell’area del Campidoglio dovevano essere messe in atto misure di sicurezza elementari e dovute come la chiusura di alcune strade e il rafforzamento della sorveglianza intorno alla sede istituzionale dell’atto finale che sanciva la legittimità dell’elezione di Biden. A Washington i leader del Congresso, compreso il vide di Trump Mike Pence, sono stati evacuati e portati in una base militare prima di far ritorno in Campidoglio: queste sono scene da tentativo di colpo di stato.
Il problema è che quasi la metà degli americani non ritiene che Biden sia un presidente legittimo e ha trovato nei suoi sostenitori più radicali e pericolosi la base squadrista per esprimerlo. Quanto potrà durare questa protesta, dove potrà diffondersi nell’America profonda e come inciderà sulla nuova presidenza è difficile dirlo.
Ma una cosa è certa: la democrazia più acclamata del mondo, quella che si propone continuamente a modello per gli altri, che critica le dittature, che le vuole rovesciare, che voleva far fuori Maduro in Venezuela con Guaidò, che bombarda ed effettua raid aerei uccidendo chi vuole, ha disvelato quello che già sapevamo di un Paese diviso, arrogante, percorso da disuguaglianze eclatanti e da una pandemia che fa sempre più vittime.
Cosa succederà adesso? Ci sono due scenari. Uno a breve e l’altro in prospettiva, dove al centro c’è ovviamente il destino di Trump, dei suoi sostenitori e in definitiva la sorte della democrazia americana, quindi di tutti noi, con riflessi importanti sulla geopolitica e l’economia. Anche in Italia, visto che gli Usa qui hanno 60 basi militari, 12 mila soldati, un centinaio di testate nucleari, missili balistici, cacciabombardieri, droni e un sofisticato sistema di sorveglianza satellitare.
Per un Paese come il nostro sotto tutela americana e Nato quanto accade a Washington è fondamentale, non basta limitarsi alle frasi di circostanza dei nostri esangui politici, sia di governo che di opposizione. Una convocazione dell’ambasciatore Eisenberg sembra opportuna anche soltanto per capire il grado di allarme nelle basi Usa che ospitiamo.
Il discorso centrale è quello della legittimità della leadership americana. Trump dopo il discorso incendiario di mercoledì ormai parla soltanto al pubblico dei suoi sostenitori e non più per tutti gli americani. Da un certo punto di vista si è delegittimato da solo e cerca una nuova legittimazione come capo di una protesta che può imboccare come si è visto una deriva violenta.
La sua leadership non è più accettabile secondo gli standard americani, della Nato, europei e occidentali. In poche parole Trump è diventato un avversario delle democrazie occidentali e dei suoi stessi alleati. E’ diventato “persona non grata”, come si direbbe in linguaggio diplomatico: nessuno oggi qui in Europa si azzarderebbe a invitarlo o a ospitarlo se non forse quei governi dalla dubbie credenziali democratiche come l’Ungheria di Orbàn e la Polonia.
Lo stesso Israele, beneficiato da Trump e sotto elezioni, lo terrebbe alla larga. Siamo in una situazione assai pericolosa. Immaginate se Trump prendesse l’iniziativa come fece il 3 gennaio scorso di assassinare il generale iraniano Soleimani. Immaginiamo se dovesse decidere di ordinare dei raid sulla Siria o l’Iran. Chi lo ferma? Chi decide di seguirlo?
Paesi autocrati come la Russia, la Cina, oppure dittature come la Corea del Nord, si stanno chiedendo quale regalo gli abbia portato la decantata democrazia americana. Il regalo è questo: una lacerante crisi di legittimità come non si era mai visto in un secolo di storia. E ora, come direbbe quel tale della televisione, fatevi una domanda e datevi una risposta.
La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA