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Lo storico di Cambridge David Reynolds, in un memorabile volume tradotto in Italia da Corbaccio con il titolo Summit, parla di due categorie di incontri al vertice. Da un lato quelli che segnano il destino della storia, che definisce “grandi drammi umani nei quali tutto è in gioco”. Ne descrive con dovizia di particolari sei: Monaco 1938, Yalta 1945, Vienna 1961, Mosca 1974, Camp David 1978 e Ginevra 1985. Dall’altro lato categorizza poi gli incontri al vertice di routine, quelli periodici, e tra questi cita i vertici G7, i vertici Onu e i Consigli europei. Ebbene quello in corso a Bruxelles, per la congiuntura storica che stiamo vivendo e per la drammaticità che sta montando dopo oramai settantadue ore di febbrili negoziati, comincia ad assomigliare molto ad un momento drammatico, nel quale è davvero in gioco il futuro del processo di integrazione europeo e più prosaicamente il destino economico, politico, sociale e culturale di milioni di cittadini del Vecchio Continente.
In questo momento i punti di disaccordo sono essenzialmente tre, ma su ognuno di questi le parti sembrano ancora piuttosto distanti.
Il primo disaccordo riguarda la riduzione, oramai certa, della quota di sussidi a fondo perduto del recovery fund. Non si parla più di 500 miliardi, ma anche la cifra che circolava ieri di 450 appare utopica. Addirittura l’Olanda e i frugali (ai quali si è aggregata anche la Finlandia) vorrebbero scendere, seppur solo simbolicamente, sotto i 300 miliardi (299 pare). L’impressione è che si potrebbe chiudere a 350. Bisognerà poi capire se salirà la quota dei prestiti, per avvicinarsi comunque ai 750 miliardi totali previsti all’inizio.
Il secondo punto di disaccordo non è contabile, ma politico-istituzionale e riguarda il meccanismo attraverso il quale dare il via libera ai piani nazionali o eventualmente tirare il freno. Unanimità (e conseguente diritto di veto) per i frugali, maggioranza qualificata, per l’asse franco-tedesco, addirittura controllo di Commissione e Parlamento europeo per l’Italia.
Infine il terzo punto riguarda i cosiddetti rebates e l’impressione è che questa sia la carta che Merkel potrebbe giocarsi proprio per tenere a bada il capofila dei frugali. Qualche concessione in più sul fronte dei sussidi e la promessa di un aumento dei fondi che torneranno all’Olanda e ai contributori netti dell’Ue.
Se questi sono i principali impedimenti per la mediazione, da sottolineare è che l’asse franco-tedesco regge ma implicitamente mostra quanto sia meno efficace la sua forza politica nello spazio della frammentata Europa a 27. Il fronte del sud procede compatto, con la coppia Sanchez-Conte nei panni del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Addirittura Orban sembra avvicinare il gruppo di Visegrad ai Paesi del sud, con l’evidente obiettivo strumentale di cercare di indebolire il premier olandese, tra i proponenti della condizionalità sui fondi legata anche ai livelli di democrazia politica dei Paesi membri.
Questa è la situazione di stallo nella quale versa il negoziato. Il vero convitato di pietra a Bruxelles è però lo spettro del fallimento. L’Ue, dallo scoppio della pandemia Covid-19, si è mossa sulle “montagne russe”. Inadeguata dal punto di vista della solidarietà (soprattutto nei confronti di Italia e Spagna) nella fase iniziale, immobile dopo il primo Consiglio europeo a distanza, si è scossa dal suo torpore grazie a Merkel e Macron. Il rischio odierno è quello di arenarsi ad un passo dalla storia.
La decisione di negoziare ad oltranza è un messaggio comunque positivo. Sicuramente diretto ai mercati poiché, se si arrivasse a “gettare la spugna”, l’effetto potrebbe essere devastante prima di tutto per il quadro finanziario globale.
Incapaci per ora di chiudere il negoziato, i leader europei dovrebbero tenere ben presenti due elementi.
Il resto del mondo li sta guardando. Un compromesso non al ribasso sarebbe davvero un segnale lanciato allo sgangherato G2 Stati Uniti-Cina. Quell’Europa geopolitica della quale ha parlato Ursula von der Leyen al momento del suo insediamento batterebbe un colpo, concreto, reale.
Il secondo fattore riguarda le opinioni pubbliche nazionali, la cui somma dovrebbe concorrere a costruire la futura opinione pubblica europea. Un nuovo fallimento, dopo quello costituzionale di inizio XXI secolo, quello economico-finanziario a cavallo del primo decennio e quello sull’immigrazione con il picco del 2015 non sarebbe tollerabile. Un quarto shock provocherebbe la disillusione totale. Euroscettici e populisti non avrebbero nemmeno bisogno di fare campagna. Basterebbe mandare in onda il film del summit di metà luglio.
Se si punta alla storia e si ottiene una farsa, la finis Europae è servita. Scongiurarla è un obbligo non negoziabile.
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