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Non ha fatto in tempo a cambiare il mondo. Il nome di Qassem Soleimani, il potente generale iraniano ucciso a Baghdad da un missile Usa, era apparso due giorni prima nella lista, compilata dal prestigioso Times londinese, delle 20 persone che quest’anno potevano cambiare il mondo (quella lista in cui compariva anche, sorprendentemente, Giorgia Meloni). Certamente, direbbero gli americani, il Times aveva ragione, e Soleimani il mondo lo ha cambiato (in meglio) uscendo dalla scena.
Ma questo fatto di sangue preoccupa, perché – qualcuno ha detto – è come una ‘dichiarazione di guerra’ all’Iran, e, anche se non può trattarsi di vera guerra, viste le sproporzioni fra le forze in campo, può inaugurare una stagione di rappresaglie e di attentati capaci di destabilizzare le economie, sia con gli effetti diretti sulla fiducia che con quelli indiretti sul prezzo del petrolio.
POCHI DANNI ECONOMICI
Quali conseguenze per l’Italia? Ci sono due modi per guardare alle conseguenze. Il primo è quello di guardare ai legami (economici) diretti fra Italia e Iran. L’Iran ha una presenza nelle notizie del mondo molto più grossa – a causa degli accordi sul nucleare, del petrolio e delle sanzioni – di quanto giustificato dalla sua stazza economica. L’economia dell’antica Persia è più piccola di quella del Belgio, e i legami commerciali con l’Italia sono modesti. Le esportazioni italiane verso l’Iran sono solo lo 0,4% del totale del nostro export di beni (e l’uno per mille del nostro Pil); le importazioni – principalmente, per nove decimi, petrolio – sono lo 0,8% del nostro import di beni. Se l’economia iraniana dovesse entrare in una crisi anche più forte di quella di adesso (nel 2019 le stime del Fondo monetario danno un Pil dell’Iran in forte crollo: -9,5%, dopo un -4,8% nel 2018), noi non ne saremmo seriamente colpiti.
LE REAZIONI INTERNE
Il secondo modo per guardare alle conseguenze si rifà a quanto detto più sopra: rappresaglie e attentati capaci di destabilizzare l’economia mondiale e i mercati del petrolio. Per valutarne probabilità e impatto bisogna partire da una semplice considerazione. Cosa pensano gli iraniani dell’uccisione del generale Soleimani? Le reazioni ufficiali sono, naturalmente, feroci: ‘preparate le bare’, ha detto l’Ayatollah in capo Ali Khamenei. Tuttavia, il regime iraniano ha perso molto di popolarità: non è passato molto tempo da metà novembre, quando le manifestazioni di piazza contro il regime, innescate dall’aumento forte della benzina, hanno tracimato in decine di città e hanno portato a scontri con le forze dell’ordine che hanno fatto circa 1500 morti fra i manifestanti. Oggi, amici iraniani mi dicono che il 90% della popolazione è contento della morte del generale. Il che non milita a favore di una risposta aggressiva delle autorità. L’humus interno è quello di un’economia stremata. Spesso si dice che un governo in perdita di consensi cerca nelle avventure esterne il modo di far dimenticare le difficoltà interne, contando su patriottismo e orgoglio nazionale (una variante di questo ‘si dice’ potrebbe essere applicata all’America, dove la decisione di Trump di mandare il generale all’altro mondo – presa in solitudine – sa molto di una manovra per rinverdire la propria immagine in vista delle elezioni di fine anno). Ma non è consigliabile per il governo iraniano gettarsi sulla via delle rappresaglie contando sul consenso della popolazione: in questo momento gli iraniani sono più preoccupati dell’inflazione – superiore al 30% – e del tenore di vita che dell’orgoglio nazionale.
UN ANNO INIZIATO MALE
Certamente, dal punto di vista geopolitico, il 2020 è cominciato male. Ma non bisogna dimenticare che gli avvenimenti geopolitici, a meno che non si tratti di una nuova Sarajevo, sono solo increspature sulla corrente dell’economia mondiale. Fanno le prime pagine dei giornali e catturano l’attenzione, ma non cambiano i dati di fondo. L’Italia ha altri problemi che non sono quelli di un duello America-Iran a colpi di drone e di rappresaglie.Il problema di un apparato produttivo che ha perso pezzi per strada e non li ha ritrovati. Il problema di una mancanza di grandi imprese che siano il luogo eletto di ricerca e innovazione. Il problema – e tocca ripetere quello che si scriveva il 2 gennaio su queste colonne – di una latitanza della politica estera: “l’habitat naturale della penisola, il Mediterraneo, rischia di essere sfilato all’Italia”. E, infine, il problema principale: l’antica magagna della questione meridionale. “Mentre è positivo che la ‘questione’ sia tornata alla ribalta, il 2020 è su questo punto un anno di svolta: se alle dichiarazioni altisonanti non faranno seguito provvedimenti concreti, il rischio è quello di disgregare ulteriormente, forse irreversibilmente, un Paese che attende da oltre un secolo e mezzo la riunificazione promessa”.
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