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L’inflazione è oggi nel crocevia delle due salienti disgrazie di questi tempi difficili: il teatro di guerra da una parte, le conseguenze del conflitto sulle nostre economie, dall’altra. L’invasione dell’Ucraina ha fatto schizzare verso l’alto il prezzo di materie prime essenziali e pervasive, come il petrolio, il gas, il grano, e molti prodotti i cui processi richiedono grandi quantità di energia, come fertilizzanti, cemento, alluminio…

INFLAZIONE E SALARI

Lentamente, questi aumenti si trasferiscono poi un po’ a tutti i prezzi, influenzando anche la cosiddetta “inflazione di fondo” (o core), cioè l’indice che esclude i prezzi delle componenti più volatili, come energia e alimentari. A questo proposito si veda il grafico a destra, che mostra come questi indici sono aumentati, anche se meno fortemente rispetto agli “indici totali”. Questa impennata inflazionistica influenza l’andamento dell’economia reale: il primo fattore è l’erosione del potere di acquisto; il secondo sta nell’altra inevitabile conseguenza sulla fiducia e la voglia di spendere che viene dalle strazianti notizie di una guerra in Europa.

Se vogliamo guardare, allora, alle conseguenze sull’attività economica, per quanto riguarda il secondo fattore c’è poco da dire. Andremo in presa diretta con le notizie dal fronte, e qui non possiamo certamente fare previsioni. Possiamo fare previsioni, invece, per quel che riguarda l’inflazione, dato che i meccanismi inflazionistici hanno dentro sia rotelle positive che negative. Vediamole partitamente.

Per queste ultime, il pericolo di infezione viene dalla spirale prezzi/salari. Se i salari rispondono agli aumenti del costo della vita, alimentano l’inflazione, dato che un più alto costo del lavoro spinge le imprese ad aumentare i prezzi, già in tensione per il maggior costo delle materie prime. Cosa ci dicono i dati sull’andamento dei salari? In America si nota un chiaro innalzamento del costo del lavoro: sia i dati mensili sui salari orari (sia medi che mediani – vedi l’Atlanta Wage Tracker) che quelli trimestrali sul costo del lavoro indicano una netta accelerazione (al 6-7%), anche se questa resta al di qua del tasso d’inflazione (+8,5% per i prezzi al consumo).

In Europa, invece, dove il costo della vita cresce intorno al 7%, non si nota una forte accelerazione dei salari. La ragione sta nel fatto che nei Paesi europei la maggior parte degli aumenti salariali viene negoziato collettivamente e le negoziazioni non sono rapide. Nel sistema americano la risposta dei salari è molto più reattiva. Tuttavia, è probabile che questa risposta ci sarà anche in Europa, pur se con tempi più lunghi, ma è anche probabile che si manterrà al di qua del tasso di inflazione. La variabile cruciale è la durata della fiammata inflazionistica. E qui passiamo alle “rotelle positive” del meccanismo.

Gli anticorpi sono due: uno dal lato della domanda e uno dal lato dell’offerta. Dal lato della domanda, gli aumenti del prezzo di un bene fanno sì che si tenda a consumarne di meno, e quindi va a riequilibrarsi quello squilibrio fra domanda e offerta che è all’origine dell’aumento dei prezzi. Ma questo “riequilibrio” va a finire nel tasso d’inflazione, quale statisticamente rilevato?

EFFETTI DEL RIEQUILIBRIO

Sì, in maggiore o minor misura. Se aumenta il prezzo, mettiamo, della carne, e se ne consuma di meno, il suo prezzo diminuirà, ma il peso della carne nel paniere dei prezzi rimarrà quello di prima, dato che gli indici dei prezzi mettono assieme tutti i beni e servizi, assegnando a ognuno un peso che viene variato solo dopo anni.

C’è però un altro indice dei prezzi, il cosiddetto deflatore dei consumi privati, che tiene conto non solo del prezzo, ma anche della quantità dei consumi. Talché, se il prezzo della carne diminuisce a causa del minor consumo, non solo si registra questa diminuzione, ma si riduce anche il peso della carne nell’indice dei prezzi, contribuendo così in maggior misura al raffreddamento dell’inflazione. In effetti, questo “deflatore” è un indice dei prezzi più fedele rispetto a quello che leggiamo sui giornali. Per esempio, in America la Federal Reserve si fida soprattutto di questo deflatore, sia nella versione totale che in quella core (bisogna dire che il deflatore è disponibile negli Usa con frequenza mensile, mentre in Europa viene pubblicato con ritardo, dato che fa parte della contabilità nazionale trimestrale).

In periodi di aumento dei prezzi, quindi, dovremmo aspettarci che il deflatore aumenti meno rispetto all’indice tradizionale dei prezzi al consumo. E questo minore aumento è confermato in America dove, come si vede dal grafico, il deflatore a marzo segnala un rallentamento dell’inflazione al 5,2%, mentre la misura corrispondente dell’indice dei prezzi al consumo core (che non appare nel grafico) mostra un’accelerazione al 6,5%.

I TREND AL RIBASSO

Poi ci sono gli anticorpi dal lato dell’offerta. Gli alti prezzi scoraggiano la domanda, come abbiamo detto, ma incoraggiano l’offerta. I produttori sono invogliati ad aumentare la produzione quando i prezzi sono alti, e anche per questa via si tende a un riequilibrio fra domanda e offerta. Di questo riequilibrio ci sono alcuni timidi segni nei mercati delle materie prime. Sia per quanto riguarda il gas naturale che per il petrolio o per gli altri materiali di base non-oil (e fra questi il cemento, l’alluminio, il grano…).

Gli ultimi dati indicano una tendenza al ribasso, anche se rimangono molto al di sopra dei livelli che si registravano un anno fa. Certamente, a questo riequilibrio ha contributo anche la Cina – che è il maggiore assorbitore mondiale di materie prime – dove l’economia sta fortemente rallentando, a causa delle restrizioni e delle chiusure anti-Covid. Insomma, a meno di recrudescenze (che sono purtroppo possibili) per quanto riguarda la situazione in Ucraina, l’inflazione dovrebbe lentamente rifluire con una graduale chiusura della forbice fra la domanda e l’offerta.


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