Il porto di Shanghai, primo al mondo per movimentazione merci
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Sicuramente grazie al vaccino, e grazie anche all’azione efficiente ed efficace di chi ha reso possibile in molti Paesi del pianeta la vaccinazione, ci incamminiamo verso una fase meno preoccupante. Tuttavia assistiamo a una recrudescenza che sta mettendo in crisi la movimentazione dei container a livello mondiale: mi riferisco al lockdown capillare nell’intera Cina. Un lockdown che ha bloccato il porto di Shanghai. Questo evento davvero preoccupante ci porta automaticamente a una serie di approfondimenti.
I SEI PUNTI DA APPROFONDIRE
1) La guerra in Vietnam l’abbiamo vissuta solo mediaticamente, cioè tramite i telegiornali d’allora e abbiamo capita in realtà la rilevanza mondiale dell’evento, ma non ne abbiamo sofferto direttamente la serie di fenomeni economici che un simile dramma causava. La motivazione di una simile tranquillità era dovuta alla distanza del fenomeno e all’articolazione di ciò che oggi chiamiamo processi logistici, processi completamente diversi da quelli attuai e che in fondo non avevano come teatro il mondo.
2) La guerra tra il Pakistan e l’India, una guerra che oggi abbiamo dimenticato del tutto: eppure, quella del 1971 coinvolse anche le Marine militari dei due Paesi. Dopo due settimane di intensi combattimenti, le forze pakistane in Bengala si arresero, e l’India promosse la creazione dello stato autonomo del Bangladesh, ottenendo addirittura lo scorporo dal Pakistan dei territori orientali.
Anche in questo caso, vista la distanza e l’autonomia produttiva da un lato e l’assenza di riferimenti portuali determinanti nella distribuzione di determinate filiere dall’altro, ci preoccupammo solo per il rischio di un’esplosione del fenomeno migratorio.
3) La guerra in Iraq, quella del 2003, ci ha preoccupato solo per il rischio di un forte coinvolgimento delle nostre Forze armate e, quindi, essenzialmente come dramma umano per la perdita di vite umane, ma mai abbiamo dubitato che tale evento bellico potesse incrinare la nostra economia.
4) La guerra in Afghanistan, o meglio le guerre in Afghanistan, ci hanno preoccupato essenzialmente per la presenza di militari italiani all’interno del contingente Nato, ma mai tale lunga fase bellica ha prodotto danni alla nostra crescita economica.
5) La guerra nei Balcani, quella della fine degli anni ’90: anche in questo caso le nostre preoccupazioni erano legate solo al diretto coinvolgimento di militari italiani, ma mai abbiamo temuto un danno diretto alla nostra economia. Eppure i Balcani erano territori vicinissimi al nostro e, anche in questo caso c’era un collegamento diretto e sistematico con il nostro Paese.
6) La guerra in Ucraina che ormai viviamo da oltre un mese sta sicuramente generando seri problemi alla nostra crescita, e ciò per la sudditanza energetica del nostro Paese dalla Russia, ma allo stato si stanno cercando possibili iniziative capaci di ridimensionare una simile sudditanza.
SISTEMA PORTUALE AD ALTO RISCHIO
Quello che invece ci preoccupa non è una guerra ma un’epidemia riesplosa in Cina: un’epidemia che ha bloccato il porto di Shanghai, uno dei porti più grandi del mondo (vedi la tabella in alto); nelle ultime 24 ore 152 navi sono rimaste ferme in attesa di sbarcare, 123 sono in attesa di partire e 82 navi attese ma bloccate in rada.
Questi dati, ripeto, ci preoccupano perché la nostra economia è legata alle attività logistiche ubicate, in realtà, nei più grandi porti container della Terra e la cosa grave è che, anche se non riusciamo a capirlo e a misurarlo, esiste una forte e sistematica interazione tra tali impianti: se solo uno di essi entra in crisi, automaticamente prende corpo una crisi gestionale in tutti gli altri e questo perché l’intero sistema è caratterizzato e, al tempo stesso, garantito, da quel processo che chiamiamo supply chain e che, in realtà, persegue il concetto d’integrazione dell’intero processo, da quello produttivo a quello distributivo.
È vero che gli impianti portuali, gli hub logistici così avanzati hanno bisogno di un numero limitato di operatori, è vero che tali hub sono praticamente informatizzati al massimo, ma un lockdown quale quello imposto dalla Cina ha praticamente spento integralmente proprio le attività garantite da un numero limitato di operatori. Non ci avevamo pensato e avevamo inseguito le grandi aggregazioni portuali, le grandi navi container, ci eravamo convinti che semplificare il “sistema logistico mondiale” ci garantiva l’attuazione di ciò che chiamavamo abbattimento dei costi nei punti di aggregazione e, al massimo, ci preoccupavano gli itinerari, cioè i rischi dei lunghi tragitti e in particolare quelli legati alla pirateria nel Mar Rosso e agli inconvenienti come quello del canale di Suez.
Ma mai, dico mai, avremmo immaginato che sarebbe stato possibile risentire immediatamente del danno legato al blocco del porto di Shanghai, mai avremmo immaginato che, solo dopo 48 ore, avremmo avuto un immediato danno alla nostra economia.
È vero che con i suoi 33 milioni di Teu (unità di misura di un container lungo 20 piedi, circa 6 metri) il porto di Shanghai garantisce una movimentazione superiore a tutti i porti che si affacciano nel Mare Mediterraneo, tuttavia questo disegno mondiale delle portualità ci sta facendo capire che siamo in presenza di rischiose, perché imprevedibili, crisi per il nostro sistema produttivo.
GLI IMPIANTI ITALIANI DEL MEDITERRANEO
In realtà dobbiamo, con la massima urgenza, ripensare non tanto alla dimensione degli hub, quanto alla logica che finora ci ha convinto sulla opportunità di limitare il numero degli hub quasi per normalizzare al massimo la logistica mondiale. Forse stiamo oggi capendo che con tale scelta abbiamo sottovalutato le possibili crisi di un solo nodo, di un solo hub.
Penso che questa crisi dovrà anche farci ripensare al ruolo di tre impianti portuali del Mediterraneo come Cagliari, Augusta e Taranto: tre porti che, rivedendo le logiche con cui sarà opportuno affrontare in futuro nel Mediterraneo la offerta dei porti transhipment, potrebbero rivestire un nuovo ruolo strategico .
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