L’Africa pagherà le conseguenze più drammatiche per la crisi alimentare che si annuncia
5 minuti per la letturadi ANNAMARIA CAPPARELLI
Ci mancava la sindrome cinese ad acuire la situazione di grave crisi delle materie prime, comprese quelle alimentari. Già prima che scoppiasse la guerra in Ucraina l’incetta di commodity da parte del gigante asiatico, in ripresa dopo il lock down, aveva innescato il rialzo dei prezzi. Poi le tensioni sono arrivate al massimo con il conflitto. E ora con il nuovo lockdown cinese dopo l’impatto sulle Borse, l’emergenza prezzi rischia di aggravarsi. E’ infatti ormai automatico che le turbolenze dei mercati finanziari si riflettano sulle materie prime, a cominciare da quelle agricole. E se in Italia il problema serio è rappresentato dall’inflazione unita al rallentamento delle attività produttive, per le aree più povere del globo l’impennata dei prezzi si traduce in carestia e fame. Il riaccendersi del Covid in Cina potrebbe dunque rendere ancora più incandescente il fronte con l’aumento dei costi dei noli che da Pechino inevitabilmente si scaricherà anche nell’Unione europea. L’effetto Cina poi è particolarmente pesante per l’Africa legata a filo doppio con Pechino e che per il pane dipende dalle importazioni russe e ucraine.
A due mesi dall’inizio la guerra la Coldiretti ha valutato in quasi 100 miliardi di dollari a livello globale il costo provocato dall’aumento dei prezzi di grano (+22%) e mais (+17%) destinati all’alimentazione umana e a quella animale con effetti a cascata su tutti i prodotti alimentari.
Le quotazioni sul mercato future del grano, sottolinea infatti Coldiretti, sono salite a 10,75 dollari per bushel (27,2 chili) mentre il mais si è assestato a 7,88 dollari, ma sono aumentati anche riso (+6%) e soia (+2%) . Con la guerra si è aperto un buco di oltre un quarto del grano mondiale, Russia e Ucraina infatti controllano quasi il 30% degli scambi. Ma da quell’area arrivano anche il 16% del mais e il 65% dell’olio di girasole. Se i prezzi proseguiranno nella loro corsa, con la spinta della nuova situazione che si sta vivendo in Cina, le già gravissime stime dell’Onu sulla catastrofe umanitaria potrebbero peggiorare. Oggi sono 44 i Paesi che hanno bisogno di aiuti per mangiare. Inoltre, secondo i dati Fao, nelle aree a più baso reddito si prospetta una flessione del 5% dei prossimi raccolti di cereali. Mentre in Ucraina le semine saranno praticamente dimezzate.
E in Italia le previsioni di semina non annunciano nulla di buono. Anche se le stime, rese note ieri dall’Istat, sono state elaborate prima del conflitto, la tendenza è al ribasso. Rispetto al 2021 l’incidenza dei seminativi sulla Sau si riduce infatti al 51,8% (dal 52,6%). Nel 2022 aumentano le coltivazioni di orzo, flettono e pesantemente (-4,8%) quelle di mais, in lieve crescita ( 0,5%) il grano tenero, ma il duro perde l’1,4%. A livello territoriale l’analisi dell’Istat evidenzia come il Sud ricopra una posizione di primo piano per quanto riguarda i cereali con il 30,2% del totale e si conferma la leadership della Puglia (13,7%), ma è proprio nelle aree meridionali che si segnala il calo più consistente della nuova annata agraria (-1,7%).
Con il conflitto e i nuovi terreni resi disponibili dall’Ue, pari a 200mila ettari in Italia (4 milioni in totale), qualcosa potrebbe cambiare con un aumento di 15 milioni di quintali di mais e grano. Secondo l’ultimo “Short term outlook” della Commissione Ue sui mercati agricoli nel 2022, il risultato infatti dovrebbe essere di un raccolto italiano di mais di oltre 6,1 milioni di tonnellate al quale aggiungere un altro milione di tonnellate di soia.
Ma tutto è subordinato alle scelte delle aziende oggi piegate dal caro costi. L’11% delle imprese agricole opera in condizioni di criticità economica tali da rischiare la chiusura, secondo l’analisi effettuata dal Crea.
Uno studio di Istat e Crea, pubblicato ieri , rileva infatti come l’agricoltura nel 2021, nonostante la resilienza, non sia riuscita ad agganciare la ripresa a causa dei costi dei fattori produttivi che hanno segnato un’impennata di quasi il 9% che non ha precedenti negli ultimi dieci anni. La progressiva e rapida crescita- spiega il report – si è concentrata soprattutto a partire dalla seconda metà del 2021 e ha riguardato, in particolar modo, i concimi (+21,2%), i mangimi (+15,5%) e l’energia (+13,5%).
Il peso dei consumi di energia nel sistema agricolo è particolarmente rilevante. Gli impieghi diretti di energia per le operazioni colturali includono i combustibili per i mezzi meccanici, il riscaldamento di serre per fiori, vivai e ortaggi e i trasporti mentre i consumi indiretti sono quelli che derivano da fitosanitari, concimi e fertilizzanti e utilizzo di materie plastiche. A fronte di questi salassi, il prezzo per le vendite dei prodotti è cresciuto solo del 6,6%. E così gli agricoltori sono stati penalizzati dalla riduzione di un punto e mezzo della ragione di scambio rispetto all’anno precedente. Scostamenti pesanti per una categoria che ha sempre lamentato redditi bassi. E queste sono le condizioni fotografate da Istat e Crea prima della guerra.
Ma se non si riuscirà a coprire con la produzione nazionale il fabbisogno si innesterà un ulteriore cortocircuito. Anche perché gli effetti della guerra non si esauriranno in tempi brevi. Con il forte calo delle coltivazioni di mais (quasi -5%), secondo Coldiretti è Sos per gli allevamenti con prospettive di rincari per carne, latte e formaggi. E così si appesantirebbe ulteriormente la bolletta delle famiglie che, secondo Assoutenti, per la spesa alimentare devono mettere in conto una spesa aggiuntiva annuale di 434 euro.
E’ dunque strategico intervenire per ridurre al dipendenza dall’estero sostenendo concretamente le aziende agricole con la tutela dei redditi. E in questa direzione vanno i contratti di filiera che, pur con un forte ritardo, sono arrivati al traguardo con l’apertura del V bando che consente di utilizzare 1,2 miliardi stanziati dal Pnrr. La mancanza di garanzie per gli agricoltori di poter vendere a prezzi equi i loro raccolti è infatti alla base, come ha denunciato da tempo la Coldiretti, dell’abbandono delle coltivazioni strategiche come il mais (-1/3 della produzione in dieci anni) e il grano con la scomparsa di mezzo milioni di ettari, praticamente un campo su cinque
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