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È arrivato il momento per una decrescita felice della retorica. La soluzione è radicale: smettiamo di erigere statue e di pompare sulla retorica pro o contro qualcuno e qualcosa.
Mettiamo che un giorno qualcuno voglia fare un busto per Giulio Regeni: scriviamo sopra che ce lo siamo venduti per 9 miliardi di armi all’Egitto del generale-dittatore Al Sisi? Non pare bello, anche se sarebbe da ricordare.
Il problema dell’Italia – ma certamente non solo dell’Italia – è la mania celebrativa e autocelebrativa. Me lo sono sempre chiesto guardando i monumenti ai caduti per le guerre, ce ne sono ovunque nelle città e nei villaggi italiani ed europei. Nei piccoli centri forse questi manufatti sono più interessanti perché i nomi dei caduti sono quelli degli abitanti del posto e si leggono i cognomi di intere famiglie di fratelli e cugini sterminati nei conflitti della nazione. I loro discendenti forse non ci sono più, o nemmeno fanno caso al destino subito dai loro antenati.
MORTI IN BATTAGLIA
La prima memoria è conservata nelle nostre famiglie e anche quella andrebbe depurata dalle balle che ci hanno raccontato.
Quanti di questi morti sul campo di battaglia – di ferite, malattie, di fame – volevano andare veramente in guerra? Quanti di loro se ne sarebbero rimasti volentieri a casa a dare una mano ai genitori a coltivare i campi? Invece no. Sono dovuti partire perché era un dovere e anche un obbligo. Oggi il servizio militare di leva non esiste più, quindi si va via veloci: una targa in qualche sede ufficiale e siamo a posto. Come accade per l’aula del senato dedicata ai soldati italiani (ma c’erano anche due civili) uccisi a Nassiriya nel 2003.
I morti del passato, soprattutto se anonimi, non sollevano alcun interesse. A chi importa mai sapere se quel soldato è morto o meno maledicendo la sua sorte? No, vengono tutti rubricati come “eroi”, caduti per fare questa patria più grande e splendente. Nessuno si sofferma a pensare che hanno sofferto le pene dell’inferno in una trincea della prima guerra mondiale e o nel ghiaccio della Russia affrontata con scarpe di cartone. E’ la loro sorte che mi interessa. Soprattutto dovrebbe far riflettere sugli altri monumenti dedicati ai politici e ai generali che li hanno mandati a morire, a compiere atti estremi e anche riprovevoli ai danni di popolazioni sconosciute e lontane.
LETTERE CENSURATE
Mi hanno sempre colpito le lettere – all’epoca per lo più censurate – dei soldati italiani in Russia che scrivevano a casa cose interessantissime del tipo: “Cara mamma, caro papa, i russi, i nostri nemici, sono contadini proprio come noi”, facendo ben capire che non condividevano il fatto di essere stati mandati laggiù a combattere contro proletari come loro, contro gente che come loro faticava e si spezzava la schiena per un pezzo di pane. Gente straniera che quando è stato il momento ha anche salvato la vita ai nostri soldati, ridotti a marciare a piedi nudi, mentre i tedeschi, dopo la sconfitta, filavano via sui camion.
Azzarderei che questo sentimento è condiviso anche dai nostri muli, forti, tenaci, ben addestrati, costretti a trascinare nella neve dei cannoni che sparavano poco e male. Anche loro avrebbero preferito restare a casa con il loro basto quotidiano, diretti a rientrare a sera in quella stalla che conoscevano così bene da non avere neppure bisogno di essere condotti a mano per i sentieri di campagna. Trovavano la via anche di notte.
L’asino e il mulo, non i politici e i generali, sono sempre stati i migliori amici della povera gente. Tutto questo è benissimo illustrato nel Museo Maremmano a Marsigliana della famiglia Corsini che racchiude questo mondo scomparso insieme a un clamoroso reperto: la pistola di Buffalo Bill, perseguitato da giovane perché il padre era un anti-schiavista, che fece poi lo scalpo ai nativi indiani e finì per arruolare Toro Seduto e Alce Nero nel suo spettacolo gareggiando con i butteri.
MONUMENTI
La storia è strana e ora ci tocca ancora vedere polemiche altisonanti di gente comodamente seduta sul divano. Potremmo procedere con l’esempio di Christo e Jeanne-Claude che impacchettavano tutto, anche i monumenti. Così non se ne parla più, anzi ne facciamo un’attrazione artistica: lui è appena morto ma il suo studio ne sta continuando l’opera. Approfittiamone.
Abbiamo davanti anni di decrescita felice della retorica che pure in questi mesi di pandemia ha funzionato a pieno ritmo elevando peana all’eroismo di medici e infermieri morti per salvare la vita degli altri. Chissà se un giorno ce ne ricorderemo con un monumento al virus o alla mascherina, che per altro non ci dovremmo mai più togliere. Per coprire la vergogna.
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