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Che cosa può consentire che un cittadino campano riceva per la sanità pubblica 1.729 euro, un cittadino ligure 2.062 e uno trentino 2.206 per non parlare di Bolzano dove gli euro sono 2.363? Quale ragione divina, terrena, logico-deduttiva può stabilire che al Nord vada il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità e all’intero Mezzogiorno poco più della metà e, cioè, il 23%? Perché l’Emilia-Romagna ha ricevuto in tredici anni 3 miliardi in più, a sostanziale parità di popolazione, rispetto alla Puglia? È vero o no che, pur partendo da una situazione di vantaggio tanto indubbia quanto ingiustificata, sei Regioni del Nord hanno visto aumentare in cinque anni la loro quota di finanziamenti pubblici mediamente del 2,36% con un ritmo di crescita di due/terzi di punto in più delle Regioni meridionali?
Abbiate pazienza: ma che Paese è quello che abolisce di fatto il servizio sanitario nazionale, adotta criteri di ripartizione dei trasferimenti che aiutano smaccatamente le Regioni in partenza più ricche e meno bisognose? Che arriva, addirittura, a concepire che questo indebito privilegio iniziale cresca automaticamente negli anni aumentando lo squilibrio tra territori “fabbricando” cittadini di serie A e cittadini di serie B e facendo tutto ciò, per di più, in debito? Per capirci: caricando, cioè, sulle spalle di tutti gli italiani anche quelli sacrificati il “magna magna” del finanziamento pubblico ai privati della sanità dei ricchi elargito con criteri di comodo e fuori da ogni regola di equità e di efficienza.
Come si spiegherebbe, altrimenti, che a peggiorare i conti, aumentando il “rosso” nei bilanci della sanità italiana, sono proprio le Regioni del Nord? Il “Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica” approvato lo scorso maggio dalla Corte dei conti è inequivoco: l’aggravamento “va ricondotto soprattutto alle Regioni a statuto ordinario del Nord, che passano da un avanzo di 38,1 milioni del 2017 a un disavanzo di circa 89 milioni”. I numeri sono sotto gli occhi di tutti: il Piemonte ha avuto un risultato negativo di 51,7 milioni; la Liguria ha coperto il disavanzo di 56,1 milioni con risorse iscritte nel bilancio 2019 per 60 milioni e perfino la Toscana, il cui sistema sanitario viene elogiato come esempio virtuoso, nel 2018 ha prodotto un passivo di 32 milioni circa.
Al Nord, ogni mille abitanti ci sono 12,1 dipendenti nel comparto sanità: medici e infermieri, ma anche tecnici di laboratorio, amministrativi, operatori socio sanitari. Al Sud la media si abbassa drasticamente, sino a 9,2 dipendenti sempre ogni mille abitanti. Con punte di squilibrio che fanno accapponare la pelle come nel caso del Veneto, la Regione del “doge” Zaia che non fa altro che lamentarsi, dove i dipendenti sanitari non medici sono 16mila in più di quelli della Campania nonostante un milione di abitanti in meno.
Tutto ciò, sia chiaro, delinea una responsabilità enorme della classe dirigente meridionale che non ha saputo difendere i suoi diritti e che ha reagito a volte tardi e male all’esigenza di riorganizzarsi, ma qualsiasi valutazione presente e futura deve partire da questi numeri-verità e dalla straordinaria forza delle tante eccellenze sanitarie meridionali costrette a fare le nozze con i fichi secchi. Nulla può più consentire che ci siano territori meridionali sempre più vasti e diffusi in cui è pericoloso ammalarsi perché hanno chiuso gli ospedali e non sono state date le risorse minime per avviare una riorganizzazione dei servizi e alternative all’altezza. Sono vergogne italiane non più tollerabili. Soprattutto, se si pensa che quelle stesse risorse negate al Sud sono state regalate al Nord per fare nuovi debiti e nuovi buchi. Disgustoso.
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