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E’ faticosa la partenza dell’Europa. Tra le grandi contraddizioni dell’Unione europea spicca l’incapacità di avere una politica estera unitaria e autonoma


Oggi il Parlamento europeo si riunisce per votare l’investitura definitiva della nuova Commissione di Ursula von der Leyen. A questo traguardo finale si arriva però dopo un percorso faticosissimo che pochi cittadini europei sono in grado di decifrare. Sono infatti già trascorsi cinque mesi e mezzo dall’elezione dell’Eurocamera, un periodo di gestazione evidentemente troppo lungo per una istituzione come l’Unione europea che avrebbe bisogno di ben altra tempestività e solidità per affrontare le sfide del presente.

Il risultato appare ormai scontato dopo il sofferto accordo sulla conferma di tutti i commissari europei, raggiunto la scorsa settimana. Infatti, diversamente dall’elezione del presidente della Commissione, che richiede la maggioranza assoluta dei voti del Parlamento europeo (pari a 361 voti), per l’investitura del collegio dei commissari basta la maggioranza semplice dei voti espressi. Non dovrebbero esserci sorprese, ma sul piano politico il raggiungimento della soglia prevista per la maggioranza assoluta avrà un certo rilievo. Se von der Leyen non otterrà almeno 361 voti diventerà la prima presidente a guidare una Commissione priva di un consenso maggioritario. Se otterrà la maggioranza assoluta molto probabilmente dovrà dire grazie a un gruppo molto composito di forze – ivi comprese le destre sovraniste dei Conservatori e riformisti europei (Ecr) – che non perderà l’occasione di strattonare l’indirizzo dell’esecutivo ora da una parte, ora dall’altra.
In attesa dell’esito del voto parlamentare, le lentezze e le polemiche che hanno circondato la formazione dell’esecutivo europeo fanno emergere le tre contraddizioni che pesano come un piombo sul percorso dell’Unione.

La contraddizione istituzionale

La prima contraddizione è quella istituzionale. La definizione della Commissione è il frutto complicato della composizione di due logiche contrapposte. Da una parte, c’è la logica intergovernativa che vive delle relazioni tra i governi europei, nella gran parte dei casi depositari di interessi configgenti e di orientamenti divergenti. Dall’altra parte, c’è la logica trasversale e sovranazionale dei gruppi parlamentari che si muovono perlopiù sulla base di accordi e disaccordi politici che vanno oltre la dimensione nazionale.

GLI SMOTTAMENTI VERSO DESTRA

È quello che è accaduto nel caso di Raffaele Fitto, il ministro italiano rappresentante di Fratelli d’Italia, sostenuto dai popolari anche nella logica di coinvolgere sempre di più la destra nazionalista dei Conservatori e riformisti, ma contrastato da socialisti (in prima fila il Pd) e liberali con l’argomento opposto, ovvero che la Commissione tradisce la maggioranza di centrosinistra che ha dato la fiducia a von der Leyen e rischia così la deriva verso posizioni sovraniste di destra.
Il problema è però che l’Unione europea, così costruita, non è né una democrazia parlamentare nella quale la compagine dei ministri necessita della fiducia data da una maggioranza di governo, né tantomeno è una federazione di Stati – come, per esempio, nel caso degli Stati Uniti d’America – con un governo federale capace di costruire la sintesi istituzionale e di esercitare l’iniziativa di governo a prescindere dall’accordo dei governi statali.

La contraddizione politica

La seconda contraddizione è squisitamente politica. La maggioranza che ha sostenuto finora von der Leyen si basa sull’accordo delle forze esplicitamente europeiste (popolari, socialisti, liberali, con l’aggiunta dei verdi), ma il sistema dei partiti europei pende sempre di più verso le forze sovraniste e centrifughe che diffidano di un’unione più forte e cercano di ostacolarla in tutti i modi possibili.
Il perno del governo che guida l’Italia – che è, per importanza politica ed economica, il terzo paese Ue dopo Francia e Germania – è un partito di destra che ha radici antieuropeiste e incompatibile con il moderatismo dei centristi.
In Francia, la corsa della destra di Marine Le Pen verso i palazzi del potere è stata momentaneamente respinta dall’operazione machiavellica di Emmanuel Macron ma il Rassemblement National esercita una influenza ormai pressante sulla vita pubblica transalpina e si prepara alla sfida per l’Eliseo.

Dalla Romania

Ungheria e Slovacchia sono governate da formazioni di destra sovranista che strizzano l’occhio alla Russia e alimentano le ambizioni del gruppo europarlamentare dei Patrioti europei. Forze nazionaliste e xenofobe si fanno largo anche in Olanda e in Svezia.
L’ultimo smottamento del sistema politico europeo che va a favore dei partiti di destra arriva nei giorni scorsi dalla Romania: l’ultranazionalista rumeno Calin Georgescu ha infatti ottenuto una sorprendente vittoria al primo turno delle elezioni presidenziali del Paese, in attesa del ballottaggioche si svolgerà l’8 dicembre.
Georgescu ha vinto con il 22,94% dei voti. Dietro di lui, la candidata riformista liberale Elena Lasconi che con il 19,18% ha superato il primo ministro di centro-sinistra Marcel Ciolacu con il 19,15% grazie a poco più di 2.700 voti. Un altro candidato di estrema destra, George Simion, è arrivato quarto con un consenso del 13,86%.
Secondo Georgescu, la Ue e la Nato non rappresentano adeguatamente gli interessi rumeni, la guerra della Russia in Ucraina è manipolata dalle compagnie militari americane e lo scudo antimissile statunitense situato nel villaggio di Deveselu, a sud del Paese, costituisce una minaccia contro la Russia e non una deterrenza per la pace.

LA POLITICA ESTERA UNITARIA CHE NON C’È

Questo ultimo punto introduce la terza contraddizione dell’Europa: la capacità di avere una politica estera unitaria e autonoma. Le lungaggini nella formazione del nuovo esecutivo sono evidentemente collegate, tra l’altro, all’attesa dell’esito delle elezioni presidenziali americane. Che il governo europeo entri in carica solo dopo aver conosciuto il nome del prossimo presidente degli Usa la dice lunga sulla capacità di autorappresentazione dell’Ue nello scacchiere globale.
Nei sei mesi che vanno dalle elezioni europee fino alla fine dell’anno, l’Europa è stata completamente inattiva sul fronte ucraino. Più di cinque mesi dopo aver promesso di dare forma a un quadro giuridico che avrebbe dato all’Ucraina gli interessi maturati sui beni russi congelati, la Ue non ha ancora preso le misure necessarie per trasformare questa decisione in realtà. E il tempo stringe per le finanze ucraine.

La contraddizione della politica estera unitaria e autonoma

Al vertice di giugno in Puglia, i leader del G7, tra cui la presidente della Commissione europea von der Leyen, hanno promesso di fornire all’Ucraina un’ancora di salvezza vitale, rendendo disponibili circa 50 miliardi di dollari provenienti dalle entrate straordinarie degli asset sovrani russi immobilizzati entro la fine dell’anno.
Ma laUe non ha adottato le misure legali necessarie per prolungare il congelamento dei beni sovrani russi. Durante la presidenza di turno della Ue, Orban si è esibito in una serie di incontri surreali giocando nel ruolo di megafono di Mosca.

Nel frattempo, Donald Trump si prepara a prendere possesso della Casa Bianca con il programma di mettere fine alla guerra in Ucraina senza troppe storie: la tutela della libertà e dell’integrità del Paese invaso passerà in secondo piano rispetto alle esigenze dell’America di non disperdere altrove risorse che andranno destinate all’economia nazionale o alla sfida con la Cina.
In questo scenario, l’Unione europea è rimasta come sospesa, senza prendere alcuna iniziativa. La domanda è: il disimpegno Usa darà impulso alla costruzione di una politica estera europea comune degna di questo nome o precipiterà l’Unione nella confusione più totale?
Nei giorni scorsi i media francesi hanno rivelato che, dopo la Francia, anche il Regno Unito sta valutando l’ipotesi di impegnare truppe di fanteria nel conflitto ucraino, visto che il governo di Kiev comincia a soffrire non solo la scarsità di mezzi ma anche quella di uomini da schierare al fronte. Forse qualcosa si muove, ma è ancora troppo poco. Le iniziative di singoli Stati europei, benché volenterose, non bastano per la sfida che l’Europa è chiamata ad affrontare a difesa dei suoi confini.


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