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Raffaele Fitto

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L’affaire fitto, la formazione della Commissione europea, le scelte di Ursula creano equilibri difficili in questo mandato bis


Come spesso accade il dibattito sul processo di integrazione europea nel nostro Paese si intreccia e viene fagocitato dalla politica interna. La lunga attesa per avere la composizione del collegio dei commissari proposti da Ursula von der Leyen per il suo secondo mandato è stata dominata da quello che possiamo definire l’affaire Fitto. Una volta confermata l’indicazione di Palazzo Chigi, pagine e pagine sono state dedicate prima alle supposizioni e poi alle analisi relative alle deleghe e alle competenze del commissario indicato dal governo italiano. In attesa delle nuove sicure polemiche relative al delicato passaggio che Fitto, come tutti i commissari scelti dalla presidente von der Leyen, dovrà fare di fronte alle commissioni dell’Europarlamento (ci sarà un sostegno bipartisan?), può forse essere utile osservare nel loro complesso le scelte della confermata Ursula.

La prima evidenza, impossibile da non sottolineare, è che si tratta di una Commissione dominata proprio dall’ex Ministro della difesa tedesca sotto Angela Merkel. Pur non mancando veterani, ci si tornerà. Non esistono profili dotati di leadership, mediatiche ma non solo, in grado di oscurare l’impressione di “una donna sola al comando”. L’esclusione del “peso massimo” Thierry Breton è stato il passaggio più clamoroso. Anche se gli screzi e gli attacchi personali tra i due erano stati continui. Difficile non citare l’uscita della danese Vestager, vera vedette sui temi della concorrenza in particolare in funzione anti GAFAM. E anche quella del carismatico Timmermans (per due mandati a dominare in Commissione). Teoricamente perlomeno nessuno dovrebbe oscurare la “stella” di VdL.

La seconda considerazione è che la presidente confermata ha costruito una Commissione che fotografa al meglio l’esito del voto di giugno. E cioè il significativo spostamento verso destra del baricentro dell’Europarlamento. Come si ricorderà, non c’è stato uno sfondamento, ma sicuramente un avanzamento di euroscettici e conservatori. E soprattutto i popolari sono stati l’unico “partito di governo” ad aver tenuto e sostanzialmente vinto quel passaggio elettorale. I commissari appartenenti al PPE sono tredici (con una vicepresidenza esecutiva) più la presidenza, come è ovvio. I commissari socialisti sono soltanto quattro (con due vicepresidenze esecutive).
I liberali sono cinque (anche qui con due vicepresidenze esecutive). Completano il quadro due indipendenti (ma uno di area popolare), un ECR (Fitto appunto) e un commissario indicato dall’Ungheria di Orban, formalmente indipendente ma in realtà fedelissimo del leader magiaro. È corretto sottolineare il primato dei popolari. Ma anche che attribuendo due vicepresidenze esecutive a ciascuno dei due partner dell’alleanza popolari-socialisti-liberali, von der Leyen ha voluto evitare di “umiliare” i due junior partners e ha soprattutto dimostrato tutta la sua capacità di muoversi tra gli equilibri di potere delle famiglie politiche europee.

La terza considerazione si può condensare in una fotografia dei rapporti di forza geopolitici dell’Ue, ben riassunta dalle sei vicepresidenze esecutive scelte davon der Leyen. L’Europa del nord e dell’est in prima linea sul fronte russo-ucraino sono ben rappresentate con tre vicepresidenze (Estonia, Finlandia e Romania, con la estone Kallas alla guida della “diplomazia europea”). L’Europa del sud è allo stesso modo tenuta in considerazione con la spagnola Ribera e l’italiano Fitto. E infine il terzo dei grandi Paesi fondatori, cioè la Francia, non poteva certo essere escluso con la sesta vicepresidenza. Parigi vale però un surplus di riflessione. La parabola discendente di Emmanuel Macron e le sue difficoltà interne si riflettono nell’opzione Stéphane Séjourné (per poco più di sei mesi ministro degli esteri del governo Attal).
Macron è stato nel 2019l’“inventore politico” di Ursula von der Leyen, buttando all’aria la logica dello Spitzenkandidat. A cinque anni di distanza VdL ha preteso la “testa” di Breton, promettendo una vicepresidenza di peso all’inquilino dell’Eliseo. Macron, a malincuore, ha ritirato Breton e ha proposto un suo fedelissimo, con scarsa se non nulla esperienza a Bruxelles, subito privato dalla stessa Ursula del controllo delle direzioni generali strategiche (mercato interno e soprattutto digitale e difesa, terreno di Breton nella passata Commissione e oggi nelle mani della popolare finlandese Virkkunen).

Un’ultima riflessione può riguardare l’intreccio tra profili scelti e assi portanti del prossimo quinquennio di presidenza von der Leyen.
Si può partire dalla transizione green, cruciale in Next Generation Eu e confermata attribuendo la competenza alla socialista Ribera. Continuare sui temi della decarbonizzazione e della sostenibilità energetica certamente, ma senza salti nel vuoto. La potente commissaria spagnola avrà attorno quattro commissari popolari che controllano le direzioni generali chiave per implementare la transizione ecologica. Si tratta dell’olandese Hoekstra, della svedese Roswall, del greco Tzitzikostas e del lussemburghese Hansen. Insomma, la spagnola Ribera appare promossa e depotenziata sul tema green allo stesso tempo.
Altro tema chiave è quello della gestione dei flussi migratori, snodo cruciale per i prossimi cinque anni soprattutto nei rapporti tra Bruxelles e Paesi membri. La scelta è caduta su un popolare austriaco, conoscendo le posizioni restrittive di Vienna su questi temi. Una scelta insomma già piuttosto connotata.

Ancora decisivi sono i settori della politica industriale e del mercato interno, nelle mani del già citato liberale francese Séjourné. Lo sono nello specifico se riuscirà ad implementare l’indispensabile politica di difesa europea. Anche in questo caso non si può non notare il rovescio della medaglia. L’ex ministro degli esteri francese dovrebbe controllare due commissari, Sefcovic e Dombrovskis, fedelissimi della presidente. L’impressione è quella che possano godere di una evidente autonomia che permette loro di muoversi svincolati dal controllo dei vicepresidenti.
Stessa importanza hanno le politiche di coesione e riforma nelle mani di Fitto.
Non bisogna però fermarsi alle deleghe ottenute ma occorre sottolineare chi ha ottenuto il mandato di “guardare le spalle” del commissario italiano. Il popolare polacco Serafin (che si occuperà del decisivo dossier del bilancio, con relative risorse da destinare a partire dal 2027), i già citati Sefcovic (al quarto mandato, anche lui popolare e centrale sui temi del commercio e della sicurezza economica) e Dombrovskis, al terzo mandato, che ritrova gli affari economici (prima nelle mani di Gentiloni). Parlando di Fitto non si può nemmeno tacere l’importanza politica del vero e proprio cadeau di VdL ai conservatori europei e a Giorgia Meloni. Un regalo non senza un secondo fine, dal momento che proprio la “torsione verso destra operata” potrebbe portare la presidente confermata a cercare verso ECR voti,in uscita, sul fronte dei socialisti e dei verdi.

Si potrebbe procedere oltre nel descrivere questa von der Leyen vincitrice su tutta la linea. Ma senza eccedere si possono anche aggiungere due precisazioni e una suggestione di fondo. Prima di tutto occorre ricordare che gli eletti di Strasburgo dovranno dire la loro e vagliare nelle apposite commissioni i profili scelti dalla presidente ed eventualmente bocciarne alcuni (il più volte citato Breton uscì nel 2019 dal cappello di Macron dopo la bocciatura della sua prima scelta, Sylvie Goulard). Al momento si dice che il più a rischio potrebbe essere il commissario ungherese, Varhelyi, un indipendente ma in realtà fedelissimo di Orban. In secondo luogo, non perdiamo di vista i meccanismi di funzionamento istituzionale dell’Ue.
Ebbene nelle ultime decadi a dominare è stato il principio intergovernativo e di conseguenza la neopresidente dovrà, prima di tutto, costruire un rapporto coerente e politicamente sostenibile con i Capi di Stato e di governo, a partire da quello con il nuovo presidente del Consiglio europeo, il portoghese Antonio Costa, in discontinuità netta con il difficile rapporto con l’uscente Charles Michel.

Una suggestione finale non può mancare. Von der Leyen ha ripetuto che le lettere di missione dei suoi commissari e il suo mandato in generale si muoveranno nel solco tracciato dai recenti documenti preparati da Mario Draghi ed Enrico Letta. La perplessità riguarda prima di tutto il richiamo ai necessari quanto ingenti investimenti di cui parla Draghi nel suo importante appello: come scalfire il controllo del terzetto Serafin-Sefcovic-Dombrovskis, veri tutori dell’ortodossia di bilancio ed oppositori a qualsiasi ipotesi di “eurobonds” o soluzioni simili? Il tutto, peraltro, con il possibile arrivo di un nuovo cancelliere CDU a Berlino il prossimo anno e una Francia difficilmente incondizioni di stabilità prima di un nuovo voto legislativo (estate 2025?) e di quello presidenziale nella primavera del 2027. Basteranno l’attivismo di neofiti quali Fitto, Ribera e Séjourné?
È evidente che un asse dell’Europa del Sud, portatore dell’agenda Draghi, potrebbe funzionare. Ma al momento appare utopico pensare ad una concreta intesa Macron-Meloni-Sanchez.
Ad oggi si può, senza timore di essere smentiti, sottolineare l’avvedutezza nella gestione tattica e nella visione strategica di von der Leyen. Se questo basterà per arrestare il declino del continente europeo e finalmente prepararlo per affrontare le drammatiche sfide globali è tutto da verificare.


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