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Dall’Ucraina al Medio Oriente a Giorgia Meloni serve più pragmatismo e meno ideologia nella politica internazionale


In questa prima metà di agosto il mondo appare sospeso sul bordo di un caotico precipizio. Il nostro sguardo rimbalza angosciato tra l’Ucraina e il Medio Oriente. La controffensiva ucraina apre senza dubbio un terzo tempo del conflitto, dopo quello dell’aggressione russa (in parte rispedita al mittente) e della guerra di logoramento, vera strategia putiniana di medio-lungo periodo. Ben presto il dilemma sull’uso delle armi occidentali ed eventualmente europee sul territorio della Federazione russa dovrà essere sciolto. Se si passa all’area mediorientale, in attesa della risposta di Teheran all’uccisione del leader di Hamas laddove doveva essere maggiormente protetto, il tema di una tregua seppur provvisoria a Gaza dovrà per forza di cose arrivare ad un punto di svolta. E il dilemma, in questo caso, riguarda chi, oltre gli Usa, ne potrà garantire il rispetto: i Paesi dell’area, l’Ue, la Cina?

Se in questo contesto centriamo l’attenzione sulla proiezione del nostro Paese fuori dai propri confini, quale impressione ne traiamo? E soprattutto a quasi due anni dal suo ingresso a Palazzo Chigi, quali sono i fondamentali dell’operato in politica internazionale di Giorgia Meloni? E come si potranno adattare alle complicate evoluzioni delle prossime settimane?

MELONI TRA PRAGMATISMO E IDEOLOGIA

Rispondere a tali quesiti era un’impresa abbastanza semplice sino alle elezioni europee dello scorso giugno. Meloni, una volta entrata a Palazzo Chigi, non aveva fatto altro che riadattare, in maniera molto cauta e pragmatica, i tre pilastri tradizionali della politica estera della “media potenza” italiana. Atlantismo, europeismo e proiezione mediterranea sono sempre stati centrali nell’Italia repubblicana. La leader di Fratelli d’Italia aveva mostrato con grande realismo l’immensa differenza tra essere responsabile forza di governo e, al contrario, radicale capofila di un movimento nazional-populista destinato ai margini della politica che conta. E con fiuto si era mossa di conseguenza, optando per la prima scelta.

Il 9 giugno scorso ha segnato un vero e proprio turning point. E ciò è accaduto per certi versi in maniera inattesa. Dal momento che l’ottimo risultato ottenuto nel voto europeo dal suo partito e in generale dalla coalizione che la sostiene al governo avrebbero fatto pensare ad una continuità, sulla linea del pragmatismo e del buonsenso. Al contrario sono arrivati i vertici ristretti con gli infrequentabili dell’Ue (primo fra tutti Orban), il silenzio ancora su Orban presidente del Consiglio europeo di turno in visita a Pechino e a Mosca, ma soprattutto il passo indietro sulla riconferma di von der Leyen e il doppio “no” su Kallas e Costa. E che dire della visita ufficiale a Pechino, una sorta di remember degli infausti tempi dell’asse giallo-verde e del protocollo sulla road and belt initiative?

DOPO LE ELEZIONI EUROPEE SI È APERTA UNA FASE DUE NEL GOVERNO

Sarebbe da sciocchi limitarsi a sottolineare tali discontinuità e magari ascriverle a qualche vezzo personalistico del nostro Presidente del Consiglio. È abbastanza evidente che l’esito delle elezioni europee è stato interpretato correttamente come un successo per il partito della premier; ma la tenuta di Forza Italia da un lato e lo sbandamento (senza crollo) di Salvini dall’altro hanno imposto a Meloni l’apertura di una fase due della vita della sua coalizione di governo. E su questo punto si innesta la vera novità. Il presidente del Consiglio ha infatti calato la sua strategia, dispiegatasi nei due mesi successivi al voto europeo.

La tenuta di Forza Italia gli ha garantito un presidio prezioso “al centro” del cosiddetto centro-destra, fornendole così tutta l’agibilità politica per risucchiare progressivamente “la destra” dello stesso centro-destra, rappresentata oramai da quel che resta del salvinismo. Fino a qui nulla di strano. La stranezza subentra nel momento in cui per “asfissiare” il salvinismo (in versione oramai generale Vannacci), Meloni ha deciso di utilizzare la politica estera, in generale, e quella europea, in particolare. Ha deciso cioè di politicizzarle ed ideologizzarle. E ha scelto di seguire Salvini nel suo trascinarsi verso il nazional-populismo. Ha optato per portare la contesa sul terreno del “capitano”, invece che allargare il divario tra lei e il vicepremier proprio sui fondamentali di politica estera.

I NODI DA SCIOGLIERE DOPO LA “PAUSA AGOSTANA”

Passata la “pausa agostana”, come ha di recente ricordato l’ottimo David Carretta su Il Foglio, bisognerà capire se Meloni “la pragmatica” tornerà sulla scena o se rimarrà on stage Meloni “l’ideologa”. I problemi di conti pubblici italiani, ma anche la debolezza dei principali partner europei (Macron e Scholz su tutti) e l’avvicendamento, comunque vada il voto statunitense, alla Casa Bianca indicherebbero la prima opzione come quella più sensata. Sarebbe dunque tempo di chiudere la lunga parentesi del dopo voto europeo e tornare a coltivare quel capitale di credibilità, in particolare internazionale, che Roma si era guadagnata sul terreno tra settembre del 2022 e la tarda primavera del 2024.

Nelle prossime settimane non mancheranno certo le occasioni per aprire “la terza fase” dell’operato del governo Meloni sul complicato terreno della politica estera. Un decisivo, quanto scivoloso banco di prova si sta sempre più avvicinando all’orizzonte e riguarda il duello Harris-Trump. Anche su questo punto occorre non essere miopi. Salvini ha già giocato di anticipo, facendo la sua scelta per il tycoon. Meloni difficilmente potrà disconoscere il candidato di quel Partito repubblicano con il quale condivide l’appartenenza all’internazionale conservatrice.

Dovrà però, dall’alto dello scranno di Palazzo Chigi, ribadire l’importanza dell’atlantismo indipendentemente da chi occuperà lo studio ovale a partire da gennaio del 2025. Dovrà in definitiva, proprio ripartendo da Washington, dismettere i panni dell’ideologa per riprendere quelli della statista. Nonostante la calura agostana, il tempo della “ricreazione” è finito. In ballo è la credibilità del nostro Paese, da anteporre alle dinamiche interne ad una coalizione di governo non più così solida come poteva apparire qualche mese fa. Ed è infine tempo di mostrare che la coerenza, in politica, è un valore in sé, soltanto quando la si pratica dall’opposizione. Nella “stanza dei bottoni” i posti per i “duri e puri”, sono sempre esauriti.


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