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Dal crollo demografico ai rischi della recessione, la difficile sfida del nuovo vertice dell’Unione in un’Europa debole e impoverita


In un contesto di globalizzazione sempre più frammentata e sempre più dominata dal protezionismo economico e dalla violenza (interna ed esterna ai confini statutari) l’Europa in generale, e l’Ue in particolare, mostrano tutta la loro debolezza. È la triste realtà di questa estate 2024.
Prima di tutto i dati, macroeconomici, ma non solo. Il vero e proprio crollo demografico è solo in parte surrogato da flussi migratori incontrollati che finiscono per alimentare la propaganda di partiti e movimenti xenofobi e di destra estrema. Se ad inizio XXI secolo la ricchezza pro capite in Europa rappresentava il 91% di quella di un abitante statunitense, oggi la cifra è al 65%. E a questo impoverimento generalizzato si associa il ridursi costante della classe media.

Se si passa poi al mondo dell’impresa il quadro non migliora. Il costo dell’energia del continente europeo è oltre quattro volte superiore a quello degli Stati Uniti. In generale i mercati europei sono stretti tra il rilancio industriale statunitense (“drogato” da aiuti di Stato e protezionismo tariffario) e il dumping creato dalle esportazioni cinesi (vedi veicoli elettrici e in generale dispositivi per la green economy, come i pannelli solari). Il dato forse ancora più preoccupante, che evidenzia lo squilibrio in atto prima di tutto tra le due sponde dell’Atlantico, è che i flussi di capitale, dopo la grande crisi degli anni Dieci del secolo, negli Usa sono ripartiti alla grande, mentre in Europa sono fermi.
Si potrebbe andare avanti a lungo, ma già con questi scarni dati una conclusione è possibile: uno dei due pilastri del processo di integrazione, cioè crescita e progresso trainati dal connubio mercato-welfare generoso, è stato intaccato in maniera permanente.

Il secondo punto riguarda l’altro pilastro del processo di integrazione, e più in generale tratto distintivo del Vecchio Continente al termine della cosiddetta guerra dei trent’anni (1914-1945), e cioè il primato del diritto per la risoluzione dei conflitti. La guerra russo-ucraina, ma anche la nuova esplosione di violenza in Medio Oriente, hanno evidenziato tutto il ritardo militare-strategico e diplomatico dell’Europa. L’idea di una “pace perpetua europea” di kantiana memoria, o se si vuole l’idea di aver sostituito i “cannoni con il burro”, privilegiando il welfare perché alla copertura militare avrebbe pensato l’Alleanza atlantica, si è eclissata a partire dal febbraio di due anni fa. Putin ha rianimato una Nato in “morte cerebrale”, ma ha anche scattato un’istantanea del “nanismo geopolitico e geostrategico” dell’Europa.

La peggiore pubblicità a questa clamorosa impasse è rappresentata dall’attuale semestre di presidenza dell’Ue, dal primo luglio nelle “sapienti mani” del magiaro Viktor Orban. Come è noto, dal Trattato di Lisbona in poi, con la presidenza del Consiglio permanente, quella semestrale ha perso gran parte della sua importanza concreta. Rimane la dimensione simbolica, quella di una Ue “a guida” del teorico della “democrazia illiberale”, il quale è subito corso a rendere omaggio ai leader dei due “imperi”, quello russo e quello cinese, il cui giudizio sull’Europa non può certo dirsi benevolo.

Se si osserva la storia recente del continente europeo, è impossibile non notare le radici dell’attuale endemica crisi. Queste affondano nell’ultimo decennio del XX secolo, quello dell’illusione unipolare ma soprattutto della convinzione che, chiusa la Guerra fredda, la globalizzazione potesse sciogliere tutti i principali grumi geopolitici in una sorta di grande carnevale socioeconomico. Ma come si suol dire, a poco serve piangere sul latte versato. Meglio prendere atto che si è ad un punto di non ritorno.

È in questo cielo colmo di nubi che devono essere collocate le tre non esaltanti nomine dei cosiddetti “top jobs” per i prossimi cinque anni ai vertici delle istituzioni comunitarie. Nessuna pretesa di criticare a priori profili di indubbio valore quali quello dell’estone Kaja Kallas (che succederà a Josep Borrell), né del portoghese Antonio Costa (che subentrerà a Charles Michel), né tanto meno quello dell’abile e manovriera von der Leyen (che succederà a se stessa). Il punto è un altro e riguarda l’estrema debolezza che stanno vivendo i soggetti nazionali trainanti il processo di integrazione. L’Ue, con buona pace dei federalisti, si è evoluta (accentuandolo negli ultimi anni) per mezzo della sua dimensione intergovernativa.
Come si può pensare di abbozzare un piano d’uscita dal guado, con leadership nazionali così deboli nei principali Paesi dell’Ue? E vi un altro elemento se possibile ancora più preoccupante: laddove la situazione è di stallo, non si vedono all’orizzonte ipotesi di sblocco in tempi brevi. Prendiamo alcuni esempi.

La posizione di Macron, dopo la sconfitta alle europee e il complicato esito delle legislative anticipate, non è certo invidiabile. Una parlamentarizzazione forzata della V Repubblica finisce per “italianizzare” un sistema non concepito per la mediazione e il compromesso. E tutto ciò potrebbe trascinarsi sino all’uscita di scena dell’attuale inquilino dell’Eliseo, cioè la tarda primavera del 2027.
Non tanto meglio se la passano al di là del Reno, con un debolissimo Scholz che si accosta al voto del prossimo anno con scarse possibilità di succedere a se stesso e il rischio che l’elaborazione di una nuova coalizione (magari cristiano-democratici-liberali-verdi) comporti mesi di mediazione e anche in questo caso si arrivi ad una nuova leadership solo ad inizio 2027.

Se si allarga il discorso dal malconcio asse franco-tedesco, al terzo vertice dei Paesi fondatori, si incontra una Giorgia Meloni solo in apparente buona salute politica. O meglio, al netto delle voci scarsamente realistiche di una possibile crisi di governo autunnale, a preoccupare è l’irrilevanza nella quale il Presidente del Consiglio ha deciso di infilarsi dal giugno scorso, invertendo l’ordine dei fattori che avrebbero dovuto guidare la sua azione di governo.

La scelta cioè di privilegiare il suo interesse politico interno a scapito della salvaguardia dell’interesse nazionale a Bruxelles. Il suo “mai con i socialisti a Bruxelles”, slogan anche accettabile nel corso della campagna elettorale per le europee, invece di essere riposto nel cassetto una volta ottenuto il successo nelle urne, è stato sbandierato al momento delle nuove nomine, togliendo al nostro Paese una rendita di posizione praticamente certa. E all’autogoal su von der Leyen è poi seguita l’uscita irrituale sul documento della Commissione relativo allo stato di diritto, con la critica al nostro Paese sulla libertà di informazione.

Con Macron, Scholz e Meloni per ragioni differenti in affanno, occorre dunque guardare verso sud, Madrid, e verso est, Varsavia? Senza dubbio Sanchez (almeno per ora) e Tusk appaiono oggi due leader piuttosto saldi e alla guida di due tra i pochi Paesi in salute dell’Ue. Ma con tutto il rispetto per Spagna e Polonia, davvero si può pensare ad un rilancio europeo, contando su questo nuovo potenziale asse?
L’Europa sotto attacco dalle minacce esterne (che si tratti di Russia, Cina ma anche dell’incognita americana nel duello Harris-Trump) dovrebbe impegnarsi e ripensarsi in un contesto nel quale sovranità economica e difesa strategica sono due parole chiave. È realistico pensare che la triade von der Leyen-Costa-Kallas si faccia carico di questo imprescindibile compito? E’ lecito nutrire più di un dubbio. Senza l’emergere di qualche leadership nazionale autorevole, prima di tutto tra i Paesi fondatori, la debolezza europea si accompagnerà alla sua triste ed inevitabile irrilevanza.


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