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Il fantasma dell’astensionismo su una consultazione che è la più importante dalla nascita dell’Ue; per l’Europa non sono le solite elezioni


Tra il 6 e il 9 giugno i cittadini dell’Unione europea saranno chiamati per la decima volta a eleggere a suffragio diretto i propri rappresentanti al Parlamento europeo, l’unico esempio esistente di assemblea di un’organizzazione internazionale la cui composizione è decisa dai cittadini dei paesi aderenti. Basterebbe questa considerazione a confermare il valore democratico e l’importanza politica del voto che a giorni saremo chiamati ad esprimere. Tuttavia, i dati cumulativi sull’affluenza alle urne nei paesi dell’Unione mostrano un quadro diverso: a partire dalle prime elezioni (nel 1979) cui partecipò oltre l’85 per cento degli elettori, questa percentuale è scesa costantemente (con l’unica eccezione del 2004, quando votò il 71 per cento degli aventi diritto) fino allo sconfortante 54,5 per cento del 2019. Cifre analoghe valgono anche per il nostro Paese.

Tutto ciò malgrado negli anni il disegno di integrazione politica ed economica europea sia andato avanti – pur tra resistenze e difficoltà – e la progressiva estensione delle competenze e dei poteri dell’Unione abbia coinvolto lo stesso Parlamento europeo. Infatti, con l’ultima modifica del Trattato (Lisbona, 2007) in una serie innumerevole di materie, che impattano direttamente sulle scelte di vita di famiglie ed imprese europee, la cosiddetta “codecisione” è divenuta la procedura legislativa ordinaria alla quale Parlamento, Commissione e Consiglio partecipano su un piede di parità.

Il Parlamento europeo sarà chiamato nei prossimi mesi ad approvare oppure respingere la nomina dei futuri membri della Commissione, che nell’architettura istituzionale dell’Unione europea assolve delle vere e proprie funzioni di governo e detiene il potere di iniziativa legislativa, ovvero definisce la mole di norme comunitarie che regolano la nostra esistenza in una vasta serie di settori. Il Parlamento europeo è dunque, insieme ma non subordinatamente al Consiglio (dove siedono i membri dei governi nazionali), il foro investito della responsabilità di assicurare che le norme comunitarie (ad esempio in materia ambientale, industriale, di tutela della salute pubblica, di difesa dei consumatori e quant’altro) siano adeguate e proporzionate agli obiettivi, oltreché rispettose dei diritti e rispondenti alle esigenze dei cittadini.

L’esigenza che l’Italia faccia sentire la propria voce in Europa, un tema naturalmente entrato nell’attuale campagna elettorale, è un obiettivo del tutto legittimo e condivisibile, che tuttavia comporta che i parlamentari europei eletti possiedano tutta l’esperienza, le doti e le capacità necessarie per partecipare proficuamente ai lavori parlamentari, per stabilire legami di collaborazione fattiva con i colleghi stranieri del proprio gruppo parlamentare e un dialogo costruttivo con quelli di opposto schieramento, per contribuire con un tangibile valore aggiunto, anche sul piano tecnico, ai dibattiti su norme che impattano sull’industria europea e nazionale, sullo sviluppo oppure l’obsolescenza di intere filiere produttive, sui livelli di occupazione, sulla tutela dei diritti e delle prerogative dei cittadini, sulla leale competizione di mercato e via dicendo.
È questo il terreno sul quale si è sviluppato il confronto parlamentare che ad esempio ha condotto all’adozione di Direttive comunitarie dense di ripercussioni economiche e sociali anche in Italia come quelle sulla plastica monouso, sull’efficientamento energetico degli edifici pubblici e privati, sul regime delle concessioni, sull’uso dei pesticidi in agricoltura e moltissime altre.

Non è dunque retorico affermare che le prossime elezioni europee sono tra le più importanti mai registrate. L’Europa ha di fronte sfide epocali. Secondo le ultime stime, per conseguire gli obiettivi delle transizioni ecologica e digitale e costruire un’autentica identità di sicurezza e di difesa (resa impellente dalle minacce alla sicurezza e alla stabilità internazionali promananti da Russia e Medio Oriente) saranno necessari almeno 800 miliardi di euro l’anno. L’attuale bilancio comunitario rappresenta poco più dell’uno per cento del PIL complessivo dell’Unione. Una dimensione assai limitata rispetto ai bilanci nazionali o a quelli di Stati federali, come gli Stati Uniti il cui bilancio federale è pari al 21 per cento del PIL.

Di conseguenza, stante anche la contrarietà di parecchi Stati membri a replicare l’indebitamento comune sperimentato per fronteggiare le ripercussioni della pandemia (Next Generation EU), durante la prossima legislatura il Parlamento europeo sarà chiamato a pronunciarsi sull’attuazione delle norme già previste e sull’adozione di quelle in programma. Per assicurare al bilancio dell’Unione nuove risorse proprie, come la tassazione sulle importazioni inquinanti, la tassa sulle imprese digitali, l’imposta sulle transazioni finanziarie, l’eventuale aumento delle contribuzioni degli Stati membri al bilancio.
Oltretutto, già a partire dal prossimo autunno e sempre più in futuro verranno al pettine i nodi dell’applicazione del Patto di Stabilità e Crescita, recentemente rivisto e modificato, ma comunque inteso ad assicurare che tutti gli Stati membri contribuiscano a una maggiore convergenza delle rispettive politiche di bilancio pubbliche, realizzino gli obiettivi di Next Generation EU e, nel caso di quelli maggiormente indebitati come l’Italia, intraprendano un percorso di graduale ma rigorosa riduzione del debito pubblico.

Su questi temi centrali per il futuro dell’Unione e delle nuove generazioni di Europei ci si attenderebbe di vedere incentrata l’attuale campagna elettorale per le elezioni del prossimo giugno. Viceversa, gran parte di questi temi non viene evocata. Bensì sostituita da richiami al dibattito di politica interna. Sorprende in particolare l’assenza dal dibattito elettorale di problematiche come la gestione dei flussi di immigrazione irregolari e la proficua integrazione di quelli regolari, la difesa della sovranità tecnologica europea di fronte alla concorrenza di altri attori globali, emergenti o meno, la necessità di salvaguardare il Mercato Unico evitando di lasciare libero sfogo agli aiuti di Stato per i Paesi dell’UE che abbiano le risorse necessarie per elargirli.

Eppure è su queste ed altre problematiche che il prossimo Parlamento europeo potrà stimolare la Commissione e il Consiglio e orientare le loro proposte e deliberazioni. Soprattutto potrà adoperarsi perché cresca la consapevolezza che in mondo interdipendente e multipolare, scosso da tensioni e conflitti, l’Unione europea potrà salvaguardare i propri valori fondanti e garantire la sicurezza e il benessere dei suoi cittadini soltanto proseguendo sul cammino di una sovranità forte proprio perché condivisa.
Uno scenario ottimistico? Certamente, ma l’alternativa è delle peggiori: un’Europa frammentata e rissosa, sopraffatta da rivali più potenti e coesi, che vede crollare le certezze che l’hanno sostenuta a lungo, dalla crescita economica alla stabilità internazionale. In altri termini, la definitiva marginalizzazione del Vecchio Continente (una definizione ormai demograficamente pertinente).

E’ questo il pericolo insito nella banalizzazione delle elezioni europee, nella loro trasformazione in un momento di verifica del consenso goduto dai governi in carica negli Stati membri, nel ricorso a candidati di facciata, nella lettura semplicistica della cruciale nozione di sovranità nazionale, nella tendenza dei ceti politici a qualificare come nazionali i propri successi e ad attribuire all’Unione europea le proprie carenze e i propri fallimenti.
In queste condizioni, non sorprende la discrasia tra i citati tassi di astensionismo elettorale e i dati diffusi ora dall’Eurobarometro che – in un sondaggio esteso ad oltre 26 mila intervistati – ha rilevato come il 74 per cento di loro dichiari di sentirsi “cittadini europei”.

*(Ex Ambasciatore ed ex Consigliere diplomatico di Palazzo Chigi)


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