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Un seggio per le elezioni in Russia

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La Russia di Putin indebolita è sostenuta da spese belliche e importazioni da Turchia, Golfo, Kazakistan, India. Su elezioni finte e dissenso nascosto la piccola-grande crepa si allarga e diventa pubblica. Questo è il segnale più bello che gli europei devono cogliere. Gli Stati Uniti sono costretti a correre fino alle elezioni. La Cina è in confusione, ma è una conferma. L’Europa vivacchia, ma la cartina della crescita dal post Covid a oggi ha Italia, Portogallo, Spagna nei vagoni di testa e in coda Germania, Francia e Olanda. L’Italia non ha l’ombrello che ci ripara dal rischio del temporale della terza guerra mondiale o l’estintore dei fuochi della polveriera dei 4 Mediterranei, ma nella stabilità della economia mezza di guerra può fare più degli altri per ragioni geografiche e storiche.

VIVIAMO una situazione internazionale molto complicata, ma consolidata. Siamo in mezzo a due guerre in Ucraina e in Medio Oriente che non finiscono, anzi si allargano e si incrociano tra di loro, ma di fatto succede molto meno di quello che si teme come effetti sulle grandezze macroeconomiche e sociali che connotano gli andamenti globali. Viviamo, per capirci, una lunga stagione di economia mezza di guerra con nulla di peggiorativo all’orizzonte. Che non vuol dire affatto che andiamo bene, ma che il quadro non peggiora.

Prendiamo il caso della stessa Russia di Putin di certo indebolita nella sua economia e di certo sostenuta dalle spese belliche, ma è vero che continua anche a importare attraverso Turchia, Golfo, Kazakistan, India. Anche qui, è ovvio, importa meno di prima, ma continua a importare. Le sanzioni in parte funzionano in parte no, la Russia avrà un piccolo calo di prodotto interno ma non salta, gli abitanti ancora se la cavano ed è insondabile il livello di sofferenza e di contrasto più o meno organizzato al regime. Perché le finte elezioni che confermano Putin sono quelle di sempre e ciò che si muove nelle teste, nei cuori e nelle viscere di questa comunità non ci è consentito di conoscerlo.

Il segnale di protesta chiesto da Navalny, però, c’è stato. È importante. Significa che la piccola-grande crepa si allarga e diventa pubblica. Questo è, forse, il dato più bello che l’Europa deve cogliere. Non siamo ancora come mondo dentro un’economia di guerra come la si concepisce in senso classico. Siamo piuttosto dentro un equilibrio di guerra che va avanti esattamente come sta andando avanti da quando è iniziata la stagione bellica. L’Europa, ad esempio, finché non si sveglia la Germania vivacchia, prosegue con le sue crescite medie recenti da zero virgola tendenti all’1% con una cartina geografica invertita dal post Covid a oggi perché nei vagoni di testa ci sono Italia, Portogallo, Spagna e in quelli di coda Germania, Francia e Olanda. Alle quali ultime fa compagnia, da fuori dell’Unione europea e per effetto proprio di questa scelta folle, anche il Regno Unito.

I cosiddetti Grandi, tranne noi per intenderci, sono tutti indietro. La vera incognita sono gli Stati Uniti che continueranno comunque a crescere di sicuro fino alle elezioni perché Biden tiene su l’economia a qualsiasi costo, diciamo che in un certo senso l’attuale governo va sul velluto perché l’economia non si può fermare a qualsiasi costo altrimenti l’onda lunga trumpiana travolge tutto. Infine, la Cina è in confusione, ma anche questa è una conferma. La sua situazione economica resta la stessa ed appare irrisolto il rebus tra continuare a scommettere tutto sulla crescita del commercio globale o lasciarlo scricchiolare un altro po’ puntando sulla sua grande domanda interna e su un nuovo equilibrio mondiale. Anche qui, insomma, si vivono i giorni tormentati di una stagione di economia mezza di guerra, ma con nulla di peggiorativo all’orizzonte.

Se per un attimo riuscissimo almeno a cogliere che in questo nuovo mondo ribaltato al predominio dell’asse strategico Est-Ovest che assegna in automatico alla Germania il ruolo di locomotiva europea deve giocoforza subentrare il predominio dell’asse strategico Sud-Nord, ci renderemo conto che la nuova locomotiva è l’Italia e aumenteremmo di molto il potenziale già elevato di crescita e di riduzione delle diseguaglianze del nostro Paese. Che non vuol dire affatto, sia chiaro, possedere l’ombrello che ci ripara dal rischio reale del temporale della vera terza guerra mondiale o avere l’estintore per spegnere i fuochi della polveriera a cielo aperto dei quattro Mediterranei, ma piuttosto prendere coscienza che nella stabilità della economia mezza di guerra noi possiamo fare più degli altri per evidenti ragioni geografiche e storiche.


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