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Il ministro dell’Industria Adolfo Urso

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Dopo il sonno della ragione che proibiva la parola “politica industriale” o i sogni di decrescita felice che hanno prodotto paralisi e disoccupazione, emerge una azione in chiave italiana e europea non statalista che vuole rilanciare la seconda manifattura d’Europa, italiana, a fronte di una crisi strutturale della prima, tedesca. Questo il senso dello Stato stratega che chiede politica industriale europea e vuole stimolare in casa la crescita del nostro capitalismo che è una cosa diversa dallo Stato francese che fa politica industriale attraverso partecipazioni del ministero dell’economia o della loro Cassa depositi e prestiti. È importante che si riparta dalla siderurgia come fu nel primo miracolo economico italiano.

C’E’ QUALCOSA di molto più profondo che ha riguardato l’azione del governo sul caso Ilva che va oltre la volontà di sporcarsi le mani con il problema dei problemi e di rimettere in pista ovviamente transitoriamente lo Stato per chiudere una stagione terribile e aprirne finalmente una nuova. Quello che va riconosciuto al ministro Adolfo Urso è di avere infranto in Italia il tabù della politica industriale ponendo al centro il piano siderurgico nazionale come fu negli anni del primo miracolo economico italiano perché da qui a catena dipendono il futuro dell’automotive, degli elettrodomestici, della meccanica, della nautica, delle costruzioni, delle infrastrutture, di altro ancora, potremmo dire di quasi tutto.

C’è qualcosa di profondo, abbiamo detto e ripetiamo, perché dopo lunghe stagioni politiche segnate dal sonno della ragione che proibiva perfino di usare la parola “politica industriale” o dai sogni di decrescita felice che hanno prodotto solo paralisi e disoccupazione, emerge una precisa volontà di azione in chiave italiana e europea non statalista che vuole rilanciare la seconda manifattura d’Europa, quella italiana, anche a fronte di una crisi ormai chiaramente strutturale della manifattura tedesca che per dimensioni è ancora la prima a livello europeo.

C’è qualcosa di razionale in una politica industriale italiana che segue lo schema europeo di consultazione e sceglie di aprire prima tavoli di filiera, anche qui partendo dalla chimica sopravvissuta di specialità che non è quella di base del primo miracolo economico italiano ma va in parallelo con il rilancio della siderurgia, per non dovere aprire dopo tavoli di crisi su tutti i settori chiave come sono, ad esempio, la moda, il biomedicale, il farmaceutico. Si tratta di attuare un lavoro preventivo che porta a elaborare entro giugno il piano industriale italiano e la proposta europea. Che rivelano consapevolezza e strategia di affrontare in casa le criticità per costruire la massa d’urto qualitativa e quantitativa necessarie, ma ancora di più spingono affinché l’Europa torni a fare in grande come soggetto europeo politica industriale che la porti ad acquisire quella competitività indispensabile per confrontarsi con Cina e Stati Uniti, ma anche con India, Turchia e Brasile. Non si tratta dunque di continuare a fare interdizione contro meccanismi distorsivi altrui in tutti i campi compreso quello della transizione climatica, cosa ovviamente giusta, ma soprattutto di agire innovando e migliorando la qualità ambientale fuori da ubriacature ideologiche.

Questo è il senso dello Stato italiano stratega che chiede allo Stato europeo, che ancora non c’è, di fare politica industriale europea e vuole stimolare in casa la crescita del nostro capitalismo che è una cosa diversa dallo Stato francese che fa politica industriale attraverso partecipazioni del ministero dell’economia o della loro Cassa depositi e prestiti. Lo spartiacque tra prima e dopo, come spesso accade nei processi di cambiamento, ha bisogno di simboli e di elementi di rottura. È importante che siano emersi rompendo con una partnership non italiana, Arcelor Mittal, che si è rivelata nefasta in tutti i sensi, per aprirne dichiaratamente una nuova che prevede l’intervento pubblico attraverso Invitalia e, quindi, sempre societario e solo per il tempo transitorio necessario, auspicato come breve e giusto, per fare spazio a un’altra iniziativa privata che restituisca a Taranto con l’acciaio green quel posto che merita tra i grandi gruppi industriali europei.

Se questo passaggio avviene consensualmente attraverso un accordo con gli ex azionisti predatori è meglio perché permette di aprirsi più facilmente al ventaglio di itinerari successivi di sviluppo, ma se tutto ciò non fosse possibile entro pochi giorni l’elemento di chiarezza che rompe con il passato e apre al futuro ci sarà comunque perché questo vuol dire avere una strategia e perseguirla. È la stessa che ha portato a chiudere i grandi accordi per le Acciaierie del Nord green in Lombardia, ai contratti di programma con Arvedi a Terni e agli altri due a Piombino con programmi adeguati di investimenti su forno elettrico e banchina. Siamo ai tre capisaldi che precedono il quarto, che è il più importante di tutti, e riguarda l’Ilva di Taranto, del nuovo piano siderurgico nazionale.

Quello con il quale deve ripartire alla voce fatti la politica industriale italiana ricalcando le orme di un passato che rese un Paese agricolo di secondo livello, come era l’Italia del Dopoguerra, prima un’economia industrializzata poi una potenza economica mondiale. Da allora molte cose sono cambiate, ma è bello pensare che riparta dalla siderurgia l’ambizione di tornare a dire la nostra e di progettare e costruire gli spazi per avere i nostri pivot di un’Europa non più frammentata ma grande player globale della manifattura.


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