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Giorgia Meloni

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La premier italiana può ambire a essere la nuova Thatcher solo se liberalizza il Paese e riscrive le nostre regole interne per governare la spesa. Quello che ha fatto il ministro Fitto con la revisione del Pnrr e l’utilizzo dei fondi europei – tutti dicevano che era impossibile e invece siamo i primi in Europa – lo si ripeta per fare la riforma del bilancio dello Stato digitalizzando e partendo da ministeri e regioni. Bisogna agire in profondità per cambiare gli ingranaggi e i meccanismi di controllo che sono quelli che bruciano la frizione e inceppano il motore dell’azienda Italia. Ci si sporchi le mani con quella larga fascia di trasferimenti a enti territoriali, imprese e famiglie dove si annida la cultura dello spreco e dell’inefficienza.

Non solo Giorgia Meloni deve subito indire le gare per le concessioni balneari e per il commercio su aree pubbliche (ambulanti) altrimenti la sua legge annuale sulla concorrenza vale niente. Non solo lo deve fare perché il sacrosanto richiamo del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, non poteva essere più chiaro: la proroga automatica delle concessioni in essere, per un periodo estremamente lungo, appare incompatibile con i principi più volte ribaditi dalla Corte di Giustizia, dalla Corte costituzionale, dalla giurisprudenza amministrativa e dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia di apertura al mercato dei servizi.

Non solo deve fare tutto ciò perché prima del diritto europeo e degli impegni presi come Paese quando l’Europa ha deciso che l’Italia fosse il primo beneficiario dei fondi del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr), viene l’interesse nazionale a cambiare il suo tasso di apertura di tutti i mercati che è un propellente fondamentale per confermare e possibilmente consolidare il primato italiano della crescita post Covid tra le grandi economie europee. No, tutto ciò che ancora non si è visto, non è affatto sufficiente. Serve rivedere con urgenza le nostre regole interne per governare la spesa.

Bisogna fare esattamente quello che ha fatto il ministro Fitto con la revisione del Pnrr e l’utilizzo dei fondi europei, che tutti dicevano che era impossibile e che ci avrebbe fatto perdere i soldi e invece ha fatto dell’Italia l’unico Paese europeo ad avere incassato quattro rate e richiesta la quinta, per conseguire un progetto ancora più ambizioso, ma anche se possibile ancora di più ineludibile. Giorgia Meloni deve trovare il nuovo Fitto e deve fare la riforma del bilancio dello Stato partendo da Ministeri e Regioni agendo in profondità con un lavoro duro e impopolare che consente di cambiare gli ingranaggi e i meccanismi di controllo che sono quelli che bruciano la frizione e inceppano il motore dell’azienda Italia.

Si tratta di intervenire con metodi Thatcheriani dentro lo Stato e dentro le Regioni non solo attuando finalmente le semplificazioni amministrative e la digitalizzazione di tutte le strutture pubbliche, ma aggredendo i malfunzionamenti che bloccano tutti i tipi di investimenti pubblici e sporcandosi le mani, esattamente come ha fatto Fitto con il capitolo spinoso dei fondi di coesione e sviluppo e degli incagli del Pnrr, con tutta quella larga fascia di trasferimenti a enti territoriali, imprese e famiglie dove si annida la cultura dello spreco e dell’inefficienza.

Non bisogna farsi influenzare dalla facile demagogia sui mille e passa miliardi di spesa pubblica perché è chiaro a tutti che il 70% è assorbito da sanità, previdenza assistenza e stipendi, e poi ci sono i 100 miliardi di spesa per interessi, la Difesa e gli adempimenti internazionali, ma è evidente che se non si pone subito un argine all’autonomia regionale già in essere che moltiplica inefficienze e clientele e sottrae risorse allo sviluppo e alla lotta alle diseguaglianze, questo Paese vivrà momenti molto brutti e sprecherà il miracolo economico della stagione Draghi preservato dal governo Meloni. Perché le complicazioni del quadro geopolitico segnato da due guerre e il rallentamento globale che ne discende, benché l’impatto sia stato fortemente rallentato dalla resilienza dell’economia italiana, alla fine presenteranno il conto aggravato dal maxidebito pubblico italiano e costringeranno ad agire con l’accetta.

Ora, non domani, è il momento di rivedere le nostre regole interne per governare la spesa portando il sistema a coerenza, altro che autonomia differenziata che manderebbe in frantumi l’unità nazionale e darebbe il colpo finale alla competitività e alla produttività di questo Paese. Bisogna fare quello che tutti avevano detto di fare senza mai riuscirci usando più o meno a sproposito la terminologia della spending review. Perché noi non stiamo parlando di una roba da tecnici, ma di qualcosa di davvero importante che può fare solo la Politica con la P maiuscola. Quella che cambia la vita delle persone misurandosi e superando problemi questa volta addirittura planetari, dalla guerra mondiale delle materie prime ai confini dell’intelligenza artificiale, dalla nuova logistica ai grandi flussi migratori, dentro un vortice che vede contrapposti Sud e Nord del mondo, oligarchi e Occidente.

Queste battaglie epocali non si vincono con una Europa frammentata e, tanto meno, con un’Ita – lia che non è in grado di fare la grande riforma del bilancio del suo Stato e di aprire parallelamente la sua economia alla concorrenza per i taxi e i balneari come per gli ambulanti e per tutti i servizi, nel modo di fare scuola e ricerca sulle nuove tecnologie, attingendo al venture capital per la finanza di impresa, trovando dalle efficienze e dallo sviluppo di un nuovo Stato e di nuovi mercati aperti quelle risorse che servono per ridurre il carico anomalo del debito pubblico italiano che paghiamo tutti noi e garantire i beni pubblici primari che sono la sanità, l’istruzione, a partire da quella tecnica, e in generale tutto il welfare dall’infanzia agli anziani. Serve un altro Fitto che operi oggi, non domani, sui malfunzionamenti strutturali della spesa pubblica nazionale e regionale per potere rivendicare nel 2027 i frutti della vera riforma dello Stato che è quella del suo bilancio e che viene prima di quella degli assetti di governo.

Deve farlo oggi perché ha i soldi del Pnrr e ha le ruote gonfie di una maggioranza solida che, dietro il fumo della lite quotidiana, non ha in realtà né la forza né la voglia di mandarla a casa. Ed è quindi questo il momento ideale per fare interventi di struttura che pensano al futuro del Paese e all’esigenza di restituirgli uno Stato solido e efficiente non più frammentato in mille rivoli decisionali politici, amministrativi, corporativi, lobbistici. Questo significa, in politica, la lungimiranza, che non può ridursi a lisciare il pelo all’elettorato solleticando gli istituti peggiori e raccontando sempre favole. Questo è il vantaggio di guidare un governo politico con una solida maggioranza politica. Altro che governi tecnici che anche quando fanno miracoli e sono guidati da fuoriclasse assoluti, appena vogliono fare quello che si deve fare e che nessuno ha fatto prima ricevono l’altolà della politichetta italiana non solo populista.

Anzi più sei bravo come capo di governo, più ti apprezzano all’estero, più si affrettano a dire basta e a operare per fermarti. Il bivio della storia di Giorgia Meloni sono le leggi della concorrenza e la riforma del bilancio dello Stato che vuol dire riscrivere le nostre regole interne per governare la spesa. Questo significherebbe fare il salto da una Destra ex populista, poi sociale, finalmente a una Destra di governo conservatore che cambia il Paese e passa alla storia. Farsi guidare dalla popolarità dei sondaggi, giorno per giorno, non aiuta di sicuro. Margaret Thatcher non leggeva nemmeno i giornali perché aveva un programma in testa e voleva attuarlo senza farsi distogliere o frenare da questa o quella polemica.

Faccia altrettanto Giorgia Meloni, ma prima renda pubblico il valore della metamorfosi tra Destra Sociale a Destra Conservatrice, lo spieghi e lo dichiari come programma di governo di lungo termine, e non consenta a nessuno di fermarla nell’attuazione del progetto più ambizioso che l’Italia possa darsi di lungo termine. È anche l’unico progetto possibile ed è perfino messo nero su bianco in più di un contratto già sottoscritti con l’Europa. Che è nei fatti la nostra banca di sviluppo anche se, a differenza degli spagnoli, non solo facciamo finta di non capirlo, ma siamo anche capaci di manifestare la nostra gratitudine, ricoprendola di ogni nefandezza. Un po’ troppo, mi sembra, per essere presi sul serio, ma anche per imporci di cambiare registro in fretta e spiegarlo agli italiani.


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