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Giorgia Meloni, presidente del Consiglio

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La ciliegina sulla torta di non ratificare il Mes dimostra che il governo insegue Conte e non ascolta Tajani che sa che cosa è l’Europa e teme l’isolamento. Avere ingoiato il patto franco-tedesco significa che il Mes non era un’arma negoziale e le forze populiste rialzano la voce per coprire la sconfitta. Invece serve il contrario perché il piccolo risultato di escludere dal nuovo Patto una parte delle spese per investimenti è legato all’espressione “fattore rilevante” che vuol dire tutto e niente. Per cui peserà la nostra capacità negoziale che si difende facendo squadra non accentuando le differenziazioni. Il rischio più grande è che il terzo Paese fondatore perda la legittimazione a dire all’Europa che sbaglia strada e insegue un’ortodossia franco-tedesca che neppure loro sono in grado di sostenere.

SIAMO prigionieri del populismo. Per continuare a non rinnegare in modo argomentato le stupidaggini dette in campana elettorale e evitare che gli altri ti possano rinfacciare di avere cambiato idea, si manda all’aria tutto. Questo miscuglio di serietà istituzionale in Europa e comportamenti interni condizionati da ragioni tattiche non regge alla prova delle cose che contano. Come è avvenuto con il patto di stabilità e crescita europeo a sua volta espressione della miopia non più solo tedesca. Emerge nei fatti una debolezza italiana che mette banalmente in luce la strumentalità della apertura a Giorgia Meloni e costringe a constatare che ogni volta che si raccontano le favole italiane dei finti pugni sul tavolo e delle finte negoziazioni su Mes e dintorni, allora l’Italia viene puntualmente tenuta fuori. Si è fino a ieri raccontato un miracolo che non è arrivato e ora si prova a simulare che almeno in parte è arrivato. Se non ci fossero solo logiche partitiche interne a condizionare alcuni comportamenti, oscillando tra incaute dichiarazioni di non firmare mai un patto in videoconferenza e la realtà di dovere scoprire che si è isolati, le cose sarebbero andate diversamente.

Avevamo avvertito per tempo Giorgia Meloni che le grandi rivoluzioni non si fanno a metà e gli indubbi risultati ottenuti sul Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) richiedevano una scelta di campo netta a favore delle alleanze storiche dell’Italia in Europa per poterle condizionare e svolgere quel ruolo di indirizzo generale che può aiutare tutti a costruire la nuova Europa politica. Non è stato così. Questo stare a metà del guado, tra l’altro, anche se non emerge subito, alla lunga rischia di mettere sempre più in crisi il rapporto tra questo governo che non ha fatto finora errori gravi e le classi dirigenti del Paese, le grandi imprese e gli uomini delle istituzioni che hanno piena consapevolezza che questo populismo gioca contro di noi. Gioca contro il governo, ma anche contro gli interessi economici generali che non sono quelli delle lobby. Per cui le classi dirigenti plaudono al ritorno di un po’ di stabilità e plaudono anche allo sbancamento di alcune clientele, ma se poi si accorgono che vengono sostituite da altre clientele allora, come diceva De Gasperi, ti molla il quarto partito. Che è quello che non vota alle elezioni, ma pesa nella politica.

La ciliegina di ieri sulla torta populista è quella di non ratificare il meccanismo europeo di stabilità (Mes) dando perfino la sensazione di inseguire addirittura Conte invece di dare ascolto alla voce della saggezza di Tajani e di Forza Italia che sa che cosa è l’Europa e giustamente invita tutti a valutare il rischio reale di rimanere sempre isolati. Anche qui si paga il conto di una narrazione inventata su un’ipotetica arma negoziale che ha prodotto solo una trappola per tutti gli italiani da cui ora è più difficile uscire. La realtà è che abbiamo dovuto ingoiare il patto franco-tedesco che è un danno certo per l’Europa, ma ancora di più per noi ed essendo evidente a tutti che la mancata firma del Mes non è stata affatto un’arma negoziale o si è rivelata spuntata, allora le ragioni populiste di politica interna tornano a vincere su tutto. Invece dovrebbe accadere l’esatto contrario perché il nuovo patto è pieno di insidie.

Bisognerebbe riflettere sul fatto che anche il piccolo risultato di escludere dal computo una parte delle spese per investimenti è legato all’espressione “fattore rilevante” che vuol dire tutto e niente. Per cui su questo terreno, come sulla forte riduzione del debito da attuare, peserà molto la nostra capacità negoziale che è indissolubilmente legata alla capacità di fare squadra non con la tendenza ad accentuare le differenziazioni che portano all’isolamento. Vorremmo sottolineare che solo nel 2025 e nel 2027 diventa un fattore rilevante la spesa per interessi e che, quindi, questo è un altro risultato di Pirro che richiede un lavoro ulteriore di negoziazione e di fiducia reciproca. Il no al Mes rischia di rivelarsi una straordinaria vittoria di ragioni di politica interna frutto della marea di balle che sono state raccontate con il piccolo decisivo inconveniente accessorio di rendere per tutti gli italiani ancora più duro il prezzo da pagare già durissimo con il nuovo patto di stabilità e crescita.

Il rischio più grande di tutti è che il terzo Paese fondatore dell’Europa perda così la legittimazione a dire all’Europa stessa che continua a sbagliare totalmente strada e sta costruendo una pessima premessa con l’allargamento ulteriore a Paesi che non sono in grado di reggere nemmeno alla lontana l’ortodossia franco-tedesca. Ortodossia per di più decaduta e nel momento in cui loro stessi non sono in grado di sostenerla. Siamo dunque alla miopia più assoluta che nessuno più contesta mentre politicamente sarebbe stato più corretto lasciare al nuovo parlamento e alla nuova Commissione la scelta di regole che costruiscono il futuro dell’Europa tenendo conto dell’equilibrio che emergerà in un mondo capovolto e segnato da un conflitto sempre più forte tra oligarchi e democrazia.


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