Antonio Tajani
7 minuti per la letturaNel margine di interesse c’è anche quello sui titoli pubblici che paga lo Stato a chi li sottoscrive e servono per stipendi e pensioni. Per cui se tu Stato tagli questo margine la banca ha un disincentivo all’acquisto dei titoli e, quindi, lo Stato tassa la fonte di reddito che lo finanzia. Si tassano solo i margini di interesse che sono una parte dei profitti delle grandi banche e gran parte delle piccole per cui è come tassare le macchine tassando solo i paraurti danneggiando le piccole e favorendo le grandi. Tajani ha il merito di avere colto il cuore del problema che sono le banche locali e la credibilità internazionale
Normalmente le banche fanno i soldi quando l’economia va bene. Quando le cose vanno male, perdono soldi. I profitti spariscono, diventano negativi, aumentano le sofferenze, aumentano gli incagli, si accumulano perdite. Quando l’economia del mondo è stata chiusa dalla pandemia le banche hanno continuato a fare profitti, non sono aumentati i non-performing loan (NPL) che sono i crediti deteriorati di imprese e famiglie, perché questa volta a differenza del passato è intervenuto lo Stato, si è operato diversamente con gli stress test, si sono date garanzie e si sono fatte le moratorie per sostenere banche e imprese. Ha perso lo Stato, ma non sono saltate le imprese e le banche hanno continuato a fare soldi. Rispetto alle grandi crisi internazionali, finanziaria e debiti sovrani, dove banche e imprese sono saltate per aria, con la crisi pandemica per la prima volta si è agito diversamente usando i bilanci pubblici nazionali e facendo debito comune europeo.
Quando le cose hanno preso ad andare molto bene, e dopo quasi trent’anni abbiamo fatto undici punti di prodotto interno lordo di crescita in due anni, allora le cose per le banche sono andate addirittura meglio. Hanno fatto ancora molti più soldi, hanno distribuito generosi dividendi, hanno ricomprato azioni, hanno elargito stipendi ai loro manager di gran peso. Ora dopo una doppia stagione d’oro molto importante, sia chiaro, per la stabilità finanziaria e reputazionale del Paese che può vantare finalmente un sistema creditizio complessivamente solido e capace di generare reddito, ci sta tutto che lo Stato stesso chieda alle banche italiane di mettersi una mano sulla coscienza e una sul portafoglio per fare quello che devono fare a sostegno di chi ha meno.
Nessuna delle grandi banche avrebbe potuto dire no a una richiesta pubblica del governo in questo senso tecnicamente costruita insieme. È né più né meno quello che è accaduto in Spagna con grande successo appena qualche tempo fa. Invece in Italia hanno voluto fare tutto in gran segreto. Non ha saputo niente prima il ministero dell’Economia e finanze (Mef), non è stato messo al corrente dell’iniziativa del capo del governo Meloni e del vicepremier Salvini neppure l’altro vicepremier e ministro degli Esteri Tajani, che peraltro ha più di tutti dimestichezza con questi temi per cultura istituzionale europea e di mercati.
Ovviamente non è stato informato il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e nessuno dei banchieri. Ne è venuto fuori un testo giuridicamente mostruoso e addirittura sovversivo in termini di stabilità finanziaria del Paese. Si è arrivati a ipotizzare una supertassa sulle banche fino a un tetto massimo pari al 25% del patrimonio netto delle banche che significa concepire una manovra di esproprio pubblico di tipo venezuelano che mette in fuga qualsiasi investitore estero dall’Italia. Si è ipotizzato di tassare solo i margini di interesse che sono un terzo dei profitti delle grandi banche e gran parte dell’utile delle piccole per cui è come se si decidesse di tassare le macchine tassando solo i paraurti e si è rischiato così di fare chiudere le piccole banche facendo un favore alle grandi. L’esatto opposto della ratio del provvedimento.
Si è ipotizzato di tassare i ricavi, non i profitti, ignorando che ci sono i ricavi all’attivo ma bisogna togliere le spese del passivo che sono i costi. Non è passato per la testa di nessuno di questi scienziati che nel margine di interesse c’è anche il margine di interesse sui titoli pubblici che sono quelli che paga lo Stato a chi li sottoscrive e che servono a chi governa questo Paese per pagare stipendi e pensioni. Per cui se tu Stato me lo tagli questo margine non è che io banca sposto l’impiego per farti un dispetto, ma perché devo fare i conti con un disincentivo reale all’acquisto dei titoli e, quindi, io Stato sto andando a tassare la fonte di reddito che mi finanzia. Questo pasticcio ha scalfito l’immagine del governo e di chi lo guida rispetto ai grandi investitori internazionali, alle agenzie di rating e alla stampa estera perché ha mostrato una debolezza nella conoscenza del linguaggio e dei meccanismi di mercato.
Ci è voluta la camicia di forza del ministro Giorgetti con il tetto massimo fissato allo 0,1% dell’attivo lordo per dare un messaggio ai mercati che si era scherzato e ci è voluto un grande lavoro dietro le quinte di chi in questo Paese ha la loro stima per fare capire che si è trattato di un messaggio politico da destra sociale, ma non erano realmente in discussione solidità e redditività del sistema bancario nazionale. Resta il fatto che il pasticcio c’è stato e la premier, Giorgia Meloni, deve prestare ascolto alle raccomandazioni di Tajani per fugare ogni ombra di populismo e sprecare un capitale reputazionale che proprio lei aveva saputo conquistare con la sua azione di politica estera e di bilancio.
È chiaro che in sede di discussione parlamentare bisogna ridiscutere con le banche anche perché ci sono temi di equità veri da perseguire. Perché sono i tassi sui depositi che vanno aumentati, non i regali a chi ne ha già avuto troppi con i mutui a tassi variabili dove per anni e anni ha pagato solo il capitale e zero spaccato di interessi. Perché le grandi banche un profitto molto alto, lo fanno con attività diverse di equity rispetto alla mera disintermediazione che è invece la pressoché esclusiva attività delle piccole banche che quindi sarebbero le vere vittime e dovrebbero chiudere i battenti mettendo sul bilancio pubblico italiano un carico di oneri che costringerebbe i contribuenti a restituire il vantaggio del prelievo extra con gli interessi sotto forma di nuove tasse e nuovi prelievi. Un obbrobrio.
Tutto questo non si risolve con qualche dichiarazione politica a reti e stampa unificate, ma con la fatica del dialogo e delle verifiche tecniche che verranno osservate con molta attenzione dai grandi investitori internazionali. Si è riuscito a sventare il rischio reale che si convincessero che il governo agiva perché aveva l’acqua alla gola. Messaggio che non avrebbe ipotecato il destino della nuova legge di stabilità, ma il futuro stesso del nostro Paese. Ora bisogna dissipare l’ombra di un messaggio ugualmente pericoloso: chi governa oggi l’Italia non si fida delle sue istituzioni tecniche ministeriali e della sua diplomazia e ha qualche difficoltà a muoversi sui mercati e a confrontarsi con le regole delle istituzioni internazionali che le regolano e le controllano. Questa è la vera insidia da scansare.
Tajani ha il merito politico di avere colto il cuore del problema interno (le piccole banche) e esterno (la credibilità internazionale). La politica italiana, di governo e di opposizione, deve capire che se la Banca centrale europea ha una linea ondivaga e aumenta gli squilibri tra un Paese e l’altro è giusto criticarla, ma ricavare da tutto ciò campo libero per massimizzare in modo pasticciato consenso interno annunciando una reazione con strumenti sbagliati e non concordati è di sicuro un boomerang pericoloso. Soprattutto chi governa deve capire che per loro è importante prendere voti ma anche vendere titoli pubblici e che questo si ottiene investendo sulla credibilità internazionale.
Che non si tutela e, tanto meno, si rafforza se non ci si fida di nessuno tra quelli che hanno esperienza e competenza e ci si affida invece a uomini portatori di una cultura avventuriera se non anti-capitalista. In questo caso oltre al danno reputazionale, che va tolto di mezzo, si aggiunge la beffa di fare tutto questo trambusto per portare a casa quattro soldi e doverne cacciare a stretto giro molti di più. Ovviamente a spese di quei contribuenti che si dice populisticamente di volere tutelare.
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