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Zelensky, Macron e Scholz

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Siccome siamo tornati alla situazione di sempre è bene che la Meloni eviti passi falsi su temi ideologici e si concentri nel lungo termine sull’obiettivo strategico di Draghi che coincide con l’interesse nazionale e quello europeo. Lasci cuocere Macron nel fuoco lento dei suoi problemi interni che si cumuleranno con le debolezze della leadership tedesca di Scholz. Nel frattempo, però, non presti il fianco a critiche e ritardi su balneari e dintorni agendo con la stessa determinazione mostrata nella liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Si usino le antenne di Fitto che segnalano per tempo quando il mare si sta alzando e la barca può vacillare e, soprattutto, si capitalizzi la flessibilità nell’uso dei fondi europei per cambiare il Paese e spingere l’Europa a tornare a fare nuovo debito comune.

La partita vera che l’Italia deve vincere in Europa per sostenere la sua crescita si gioca tutta in casa. Riguarda la sfida di dotarsi di una governance centralizzata e di un’amministrazione efficiente che permettano di superare la cronica incapacità di fare investimenti pubblici e spendere bene i fondi europei.

Riguarda la capacità di sfruttare il momento magico di un’Europa che solo nella stagione post Covid si è decisa a fare debito comune e ha riconosciuto all’Italia una posizione di privilegio assoluto per risolvere il problema del più grande squilibrio territoriale europeo che è il nostro Mezzogiorno, non per finanziare i progetti sponda del marchettificio infinito italiano che riguarda Regioni e Comuni (non tutti) del Nord come del Sud.

Bisogna sfruttare l’opportunità storica regalata all’Italia dal governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi e dalla sua indubbia leadership politica europea che ci permette di sedere sopra una montagna di circa 300 miliardi di fondi europei. Bisogna, però, anche liberarsi di tutti quegli incagli interni nostri specificamente italiani che lo stesso governo Draghi ha cercato di superare con l’intuizione della cabina di regia a Palazzo Chigi e dei poteri di supplenza, ma senza riuscire a conseguire risultati coerenti con le aspettative a causa della delicatezza del problema e della sua prematura caduta.

Il problema dell’Italia, il suo tabù storico da almeno un paio di decenni, è quello di non essere capace di fare investimenti pubblici. È giusto riconoscere che il governo Meloni ha dimostrato su questo punto capacità strategica facendo una scelta politica di competenza attribuendo al ministro Raffaele Fitto tutte le deleghe europee e ha lavorato con intelligenza dentro i meccanismi europei perché si riconoscesse all’Italia quella flessibilità necessaria nell’utilizzo di tutte le risorse che variano dal Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) al Fondo di coesione e sviluppo, dal Piano complementare ai fondi strutturali.

Ballano dieci punti di Pil se si vince o meno questa scommessa. Che è la scommessa del Paese ed è possibile giocarla perché il governo Meloni ha agito in continuità con il governo Draghi sulla finanza pubblica guadagnandosi il rispetto delle istituzioni europee e dei mercati. Questo punto di analisi in casa nostra è sottovalutato preferendo indulgere su storiche dimenticanze franco tedesche nei confronti dell’Italia come dimostra la recente missione dei due ministri dell’economia negli Stati Uniti sui temi vitali degli aiuti di stato e della politica industriale e, in misura ancora più forte, con la cena all’Eliseo di Macron con Scholz e Zelensky alla vigilia del Consiglio europeo. Vogliamo ricordare a tutti che tranne la parentesi del governo Draghi è sempre stato così.

Chi legge questo giornale sa perfettamente che la leadership politica europea espressa da Draghi è un unicum assoluto legato al credito conquistato nel mondo come capo del governo della moneta europea che ha salvato l’euro e, quindi, ha reso un servigio straordinario a tutte le economie europee e come capo del governo italiano che forte di questo prestigio era riuscito a rimettere l’Italia al centro dell’Europa federale di cui è l’architetto politico riconosciuto da tutti.

La situazione di privilegio accordata all’Italia come non mai passando da storico contributore a percettore netto e che tanto ha contributo al miracolo nascosto di una crescita italiana superiore a quella delle grandi economie europee e di Cina e Stati Uniti è un unicum legato al credito personale di Draghi accompagnato dalle scelte di un processo riformatore compiuto e da una guida in politica estera che i cosiddetti Grandi dell’Europa riconoscevano a lui, non a altri.

Si era tornati ai tempi di De Gasperi che con Adenauer e Schuman fece l’Europa con la differenza che questa volta Draghi non seguiva Scholz e Macron come De Gasperi faceva allora con Adenauer e Schuman. Era molto spesso proprio lui a dare la linea se è vero come è vero che è Draghi a mettere cancelliere tedesco e capo di stato francese su un treno per Kiev. Questi sono i fatti e il conto che si paga oggi appartiene all’irresponsabilità della politica italiana che ha prima bocciato Draghi come capo dello Stato e poi ha voluto addirittura privarsene come capo del governo.

Per capirci, quello che è accaduto con Macron e Scholz è esattamente ciò che è sempre accaduto dal duo Merkel-Sarkozy in poi nei rapporti con i capi di governo italiani tranne qualche sporadica eccezione durante il mandato di Hollande all’Eliseo. Intendiamoci bene anche su questo punto. Giorgia Meloni ha perfettamente ragione quando dice che l’Europa dovrebbe parlare con una voce sola e va giudicato pericolosamente l’atteggiamento “separatista” del duo Macron-Scholz su temi così strategici come la guerra nel cuore dell’Europa e la politica industriale nei rapporti tra Vecchio Continente e Stati Uniti.

Ha ragione, soprattutto, la Meloni perché su un Pil mondiale di cento e passa trilioni di dollari, gli Stati Uniti ne fabbricano più di 25 e arrivano a più di 27 con il Canada, la Cina ne fa poco più di 19 e la Germania si ferma a poco di più di 4 essendo dunque non una potenza economica ma un nano nel grande gioco dei player globali affiancato da un altro nanerottolo come è la Francia che di trilioni ne fabbrica poco più della metà della Germania.

Per questo l’unica risposta possibile alle sfide globali è l’Europa federale con l’Italia al centro che supera le storiche miopie franco tedesche che non è nient’altro che il disegno strategico di cui è da sempre ideatore e portabandiera Mario Draghi. Siccome siamo tornati alla situazione di sempre è bene che la Meloni eviti passi falsi su temi ideologici e si concentri nel lungo termine sull’obiettivo strategico di Draghi che coincide con l’interesse nazionale e quello europeo. Lasci cuocere Macron nel fuoco lento dei suoi problemi interni che si cumuleranno con le debolezze della leadership tedesca di Scholz. Nel frattempo, però, non presti il fianco a critiche e ritardi su balneari e dintorni agendo con la stessa determinazione mostrata nella liberalizzazione dei servizi pubblici locali.

Si usino le antenne di Fitto che segnalano per tempo quando il mare si sta alzando e la barca può vacillare. Soprattutto Giorgia Meloni deve impedire che si incagli anche la partita che l’Italia ha invece impostato molto bene grazie proprio ai buoni uffici di Fitto e al credito conquistato da lei stessa in pochi mesi con le istituzioni europee. Questa partita è quella che permetterà all’Italia di avere la flessibilità nell’utilizzo dei fondi europei su cui nessuno faceva affidamento. Perché se a questa flessibilità corrisponderà una governance italiana capace di conseguire obiettivi di spesa imponenti ma realistici, allora l’Europa dei nani che si credono giganti sparirà perché tornerà l’Europa che farà nuovo debito comune e noi saremo in prima fila come Paese Fondatore e, ancora di più, come primo motore della crescita aggiuntiva europea dentro il nuovo ordine mondiale determinato dalla guerra di Putin all’Ucraina nel cuore dell’Europa che segna un punto di svolta nel conflitto tra autocrazie e Occidente.

Questa partita italiana è diventata una partita europea nel momento in cui gli effetti della ri-globalizzazione post Covid e post guerra mondiale delle materie prime determinata dai carri armati russi in Ucraina hanno rivoluzionato le catene della logistica e hanno fatto di quello stesso Mezzogiorno l’unica piattaforma possibile di hub energetico e industriale del Mediterraneo per garantire all’Europa intera ritmi di crescita che altrimenti non potrebbe mai avere. Fa bene, dunque, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, a dire chiaro e tondo che si può essere anche d’accordo con l’aumento degli spazi per gli aiuti di Stato, ma in cambio di una flessibilità ampia sulla revisione di tempi e contenuti del Pnrr e di una riforma della governance europea che non penalizzi gli investimenti strategici.

Questa partita che riguarda apparentemente il diverso grado di agibilità dei singoli Paesi a causa dei diversi spazi fiscali riguarda invece l’Europa stessa se vuole avere o meno un proprio ruolo nella competizione globale dei grand deal industriali e tecnologici. È assolutamente vero che non possono esistere Paesi di serie A e Paesi di serie B esattamente come non è possibile che in Italia esistano cittadini di serie A e di serie B. Per quanto riguarda noi, però, la strada è tracciata.

Se vogliamo aiutare l’Europa a salvarsi e a giocare come grande player internazionale alla pari con Stati Uniti e Cina e vogliamo avere noi dentro questa nuova Europa federale il posto in prima fila che ci compete, dobbiamo essere capaci di spendere quella montagna di circa 300 miliardi di euro che sono nelle nostre disponibilità mettendo insieme tutte le risorse europee accordate. Dobbiamo soprattutto assumere nella pubblica amministrazione a Roma come nei territori non la competenza degli amici degli amici, ma la competenza di esperti informatici, statistici e così via dotati di competenze vere. Soprattutto queste competenze vere dobbiamo saperle scegliere bene.

Dobbiamo fare tutto in fretta e seguire la pista della governance centralizzata indicata da Fitto con lungimiranza e intelligenza politica. Questa è la vera partita europea dell’Italia e non possiamo perderla.


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