Giorgia Meloni durante il voto di fiducia al Senato
6 minuti per la letturaVorremmo dire con franchezza che il progetto a medio termine di Paese illustrato dalla Meloni che mette al centro la logistica energetica, l’industria del mare e punta a fare del Mezzogiorno l’hub dell’Europa investendo sul suo capitale umano e sulla leadership nel Mediterraneo è da sempre l’idea fondante di questo giornale che non ha mai smesso di sostenere che il Sud non è un problema, ma un’opportunità per un’Italia che voglia tornare a crescere e un’Europa che voglia contare nel nuovo ordine mondiale che scaturirà dalla fine della guerra russa in Ucraina. È una sfida delicatissima che chiede alla comunità meridionale di mettersi in discussione a tutti i livelli e di fare gioco di squadra tra di loro e tra le due sponde del Mediterraneo. Se la Meloni vuole attuare davvero questo progetto di Paese si ricordi sempre che per realizzarlo dovrà vincere la battaglia del governo comune europeo
Giorgia Meloni sta dimostrando una stoffa da leader politico di una Destra italiana che esce dal populismo e connota il nuovo conservatorismo. Può piacere o non piacere, tutto andrà ovviamente verificato alla prova dei fatti, molte sono le insidie presenti all’interno della sua coalizione, ma al momento siamo davanti a un dato programmatico esplicito che non va sottovalutato. Questo segnale politico si coglie in una linea che adotta il vocabolario degli extraprofitti e degli extragettito per dare risposte italiane all’emergenza assoluta del caro bolletta mantenendosi dentro il quadro di finanza pubblica che mette in sicurezza il Paese. Ha detto: non possiamo continuare a caricare debiti sui nostri figli. Sono frasi forti che appartengono al linguaggio della consapevolezza e sono state ripetute più volte.
Lo stesso identico segnale politico si coglie quando per affrontare la stessa emergenza mette al primo punto la lotta alla speculazione e il duro lavoro da fare in Europa sostenendo quello fatto dal governo precedente semplicemente perché è giusto. Perché le risposte vere sono il tetto dinamico, la separazione dei meccanismi di prezzo tra gas e fonti energetiche rinnovabili, uno strumento finanziario comune, e tali risposte per l’oggi e per il domani devono venire dall’Europa. Queste risposte sono il frutto da cogliere dell’azione politica incessante del governo italiano di unità nazionale che non ha mai mollato la presa ed è molto bello che il nuovo governo Meloni sostenga il lavoro del governo Draghi. Questo significa tutelare l’interesse nazionale e rendere più solida la nostra democrazia.
Lo stesso, identico respiro di una democrazia più forte che tutela le identità, ma preserva il bene comune, si è avvertita nelle parole di critica costruttiva di Matteo Renzi che sui temi del merito e della giustizia ha toccato le corde giuste di una spinta politica che va nella direzione di un Paese che sceglie di cambiare dentro un progetto e dentro un’idea di futuro. Anche questo è un segnale politico importante da cogliere. Berlusconi ha rivendicato la storia politica del centrodestra e ha giurato lealtà al nuovo Destracentro. Lo ha fatto senza sbavature, ma questo proprio misura la delicatezza della situazione se si è dovuti arrivare a un testo scritto per fugare dubbi sulla sua lealtà e sui rapporti con Putin.
C’è un passaggio della replica di Giorgia Meloni al Senato tutta in chiave interna sempre sui temi economici che questo giornale condivide in toto. Il richiamo a diminuire la quota di dipendenza italiana negli approvvigionamenti facendo in casa quello che fino ad ora non abbiamo fatto e, cioè, quei rigassificatori a partire da Gioia Tauro – “serve un dpcm che lo definisca opera strategica per fare partire i lavori” – e tutti quegli impianti da fonti rinnovabili che vengono bloccati con la stessa cultura del non fare che è lo storico tallone d’Achille del nostro Paese.
Un crocevia dove la macchina degli investimenti pubblici si ferma bloccandone la crescita perché impedisce l’attrazione di capitali produttivi internazionali e riduce l’area di interventi privati nazionali.
Su questo punto la Meloni indulge a una critica legittima nei confronti di chi la ha preceduta sulla esecutività degli interventi cantierati del Piano nazionale di ripresa e di resilienza che sono meno di quelli programmati. La nostra opinione è che quanto si è speso fino a ora è un miracolo assoluto considerando lo stato di frammentazione dei poteri decisionali del Paese e la situazione di inefficienza strutturale da cui si è partiti a livello di burocrazie ministeriali e regionali per non parlare dei deficit di risorse umane dei Comuni. Molto opportunamente il governo Draghi ha privilegiato gli interventi di riforma strutturale della pubblica amministrazione e di reclutamento di professionalità adeguate dotandosi di poteri di governance che hanno, ad esempio, permesso di fare durare solo tre giorni il blocco dei lavori della stazione ferroviaria dell’alta velocità di Bari, disposto dal Tar su ricorso di una associazione ambientalista. Ha provveduto il Consiglio di Stato a riaprire il cantiere perché la nuova governance impone tempi contingentati.
Vogliamo dire che si è preferito lavorare in chiave strutturale mettendo le basi per cambiare in profondità la nostra amministrazione e ideando nuovi meccanismi per recuperare velocità. Operazioni complesse che esigono un tempo tecnico di realizzazione ma che a regime possono produrre benefici duraturi. Su questo tracciato deve lavorare il governo Meloni prendendo il buono della continuità e inserendo quella discontinuità tecnica a livello centrale che già si intravede nella scelta di riunire sotto un unico ministero, quello degli affari europei di Fitto, la gestione dei fondi del Pnrr e di coesione e sviluppo. Perché qui sì che c’è stata una sottovalutazione del problema, essenzialmente in termini di assistenza tecnica centralizzata, dei Comuni meridionali che non devono però rinunciare al percorso avviato di autosufficienza. Altrimenti non c’è futuro.
Vorremmo dire con franchezza che il progetto a medio termine di Paese illustrato dalla Meloni che mette al centro la logistica energetica, l’industria del mare e punta a fare del Mezzogiorno l’hub dell’Europa investendo sul suo capitale umano e sulla leadership nel Mediterraneo è da sempre l’idea fondante di questo giornale che non ha mai smesso di sostenere che il Mezzogiorno non è un problema, ma un’opportunità per un’Italia che voglia tornare a crescere e un’Europa che voglia contare nel nuovo ordine mondiale che scaturirà dalla fine della guerra russa in Ucraina. È una sfida delicatissima che chiede alla comunità meridionale di mettersi in gioco a tutti i livelli come classe politica e amministrativa territoriali e alla sua comunità economica e alle sue punte di eccellenza di ricerca di fare gioco di squadra tra di loro e tra le due sponde del Mediterraneo.
Se la Meloni vuole attuare davvero questo progetto di Paese si ricordi sempre che per realizzarlo dovrà vincere la battaglia del governo comune europeo. Non è un tema di oggi e nemmeno di domani, ma da qui a qualche anno, scelta dopo scelta, si dovrà innescare una maturazione collettiva del popolo europeo che lo porti a pretendere l’elezione della commissione europea a suffragio universale. Fino a quando ogni Stato continuerà a mandare i suoi rappresentanti, non ci sarà mai il governo comune dell’Europa ma il solito governo di due Paesi, Germania e Francia, e dei loro satelliti. Ci pensi bene, presidente Meloni, questa è la grande battaglia dell’Italia che come terzo Paese Fondatore ha la legittimazione per guidare e vincere questa battaglia. È quella sulla quale Draghi si è speso da statista come presidente della Bce e come premier italiano. Potrebbe essere il capolavoro di una Destra che esce dal populismo, diventa sistema in Italia, e connota il nuovo conservatorismo europeo.
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