Mario Draghi
6 minuti per la letturaIl problema numero uno dell’economia italiana in questo momento è che negli ambienti internazionali si passi dal dire “avevate un problema, ma c’è Draghi” al sostenere “avete un problema nonostante Draghi”. L’aumento dei rendimenti decennali del BTp al 3,42% è fonte di preoccupazione. Perché parliamoci chiaro, oltre alla Bce che non acquista più e alza i tassi, l’Italia ha anche un problema politico che crea incertezza sul mercato e non riguarda solo l’avvicinarsi delle elezioni nel 2023 e i dubbi sull’attuazione del Pnrr. L’Italia ha un suo problema specifico che si chiama rischio di ridenominazione. Significa che gli investitori continuano a ritenere che, a differenza della Spagna, in casa nostra ci sono componenti politiche di peso tali da far temere che l’Italia possa un giorno volere uscire dalla moneta unica e rimborsare i BTp non più in euro ma in lire. Secondo un report di Intesa Sanpaolo il peso del rischio di ridenominazione sul rischio totale è salito al 52% da un minimo del 20% all’inizio della pandemia. Secondo Intesa SanPaolo, che è una banca italiana, non è Goldman
Il problema numero uno dell’economia mondiale è quanto dura la guerra in Ucraina. La storia ci ha insegnato che dobbiamo avere dei luoghi dove si compongono i conflitti tipo le Nazioni Unite al momento non pervenuti. Anche oggi, esattamente come è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, servono luoghi dove le nazioni cercano di intendersi pacificamente evitando l’ipocrisia di distinguere tra guerre a bassa e a alta intensità. Perché il punto dirimente è sempre uno solo. Che questo incendio nel cuore dell’Europa, diventato un conflitto di civiltà, possa continuare a svilupparsi.
Se succede di sicuro si definirà un nuovo ordine mondiale e il dominio delle autocrazie si profila come un rischio reale, ma nel frattempo arriva non la grande frenata dell’economia mondiale, arriva qualcosa di molto più grave. Che sono la carestia alimentare e umanitaria di Africa e Medio Oriente, la crisi sociale e il crollo dell’economia globale declinato su varie modulazioni – europea, americana, asiatica – sempre però all’interno del crollo.
Il problema numero uno dell’economia europea è che l’Europa politica se esita a fare i passi in avanti necessari in termini di bilancio, di difesa e di politica estera comuni, come sta succedendo in modo imbarazzante con una crisi di leadership tedesca sotto gli occhi di tutti, torni almeno politicamente a essere in modo fulmineo l’Europa che abbiamo visto all’opera con la pandemia: nuovo debito comune europeo, programma condiviso di investimenti, crescita, crescita per ricostruire e evitare il doppio spettro del passato che sono l’austerità e la recessione.
Per i suoi mille equilibrismi da succursale di Budapest e gli storici irrisolti problemi di governance per cui neppure le cooperazioni rafforzate tornano in gioco, l’Europa al posto di fare un nuovo “Recovery guerra” come sarebbe giusto ha ripreso a pasticciare anche sul fronte delle sanzioni finendo con l’incrementare le entrate della Russia. Mentre le prime sanzioni, suggerite da Draghi, di congelamento delle riserve all’estero della banca centrale russa hanno colto nel segno colpendo al cuore quell’economia e facendo volare l’inflazione, la dichiarazione di embargo sul petrolio così faticosamente raggiunta e giocoforza così tanto postdatata ha avuto il bellissimo risultato di aumentare il prezzo del petrolio (venerdì quotava 120 contro la media 2021 di 71 e quella gennaio-giugno del 2022 di 94/95).
Non ci resta che sperare che nessuno riapra mai il capitolo sanzioni sul gas perché come sanno ormai anche i meno esperti, per affrancarsi dalla dipendenza russa Germania e Italia hanno bisogno almeno di due anni buoni, prima entreremmo nel campo pericolosissimo dei costosi velleitarismi. Anche perché proprio per l’aumento della consapevolezza che tale embargo non si farà il prezzo sta debolmente diminuendo e un tetto europeo ben congegnato potrebbe fare il resto.
Il problema numero uno dell’economia italiana in questo preciso momento è che negli ambienti internazionali si passi dal dire “avevate un problema, ma c’è Draghi” al sostenere “avete un problema nonostante Draghi”. L’aumento dello spread è fonte di preoccupazione – siamo arrivati venerdì ai 214 punti base BTp-Bund, record dal maggio 2020, e a rendimenti decennali al 3,42% che sono il record dal novembre del 2018 – perché quello che proprio non possiamo permetterci è che si possa dire che lo spread italiano rivela e trasferisce lo spavento del mondo.
È chiaro che il fenomeno risente prima di tutto degli imminenti rialzi dei tassi da parte della Banca centrale europea (Bce) che, da grande acquirente dei titoli di stato italiani fino a poco tempo fa, non ne comprerà più. Per capire che cosa vuol dire, basti sapere che negli ultimi due anni la Banca d’Italia (per conto della Bce) è stata acquirente netta di titoli di Stato italiani per 280 miliardi di euro a fronte di emissioni nette pari a 246 miliardi di euro. Capite come stavamo in piedi prima e che cosa ci aspetta ora che la Bce non solo non acquista più, ma rialza anche i tassi?
C’è, poi, un problema tecnico legato al fatto che i BTp sono gli unici titoli di Stato del Sud Europa ad avere un mercato dei future efficiente. Per cui chi vuole coprirsi dal rischio Sud Europa (non solo Italia, riguarda anche Spagna e Grecia) non può fare altro che vendere BTp future e così penalizza i BTp veri e propri. Contribuisce, di certo, la frenata dell’economia italiana anche se questa economia, come abbiamo detto in assoluta solitudine e ribadiamo qui, si sta rivelando tra le più resilienti proprio per un tasso interno di fiducia nella stagione del governo di unità nazionale, guidato da Draghi e voluto da Mattarella, che spinge consumi, servizi, turismo e consente di tenere botta con la produzione. Parliamoci chiaro, però, l’Italia ha anche un problema politico rilevante che inizia a creare forte incertezza sul mercato e non riguarda, come si dice in modo riduttivo, l’avvicinarsi delle elezioni nel 2023. L’Italia ha un suo problema specifico che si chiama rischio di ridenominazione. Che cosa significa?
Significa che il mercato continua a prezzare il rischio di uscita dell’Italia dall’UE con la conseguenza della ridenominazione della valuta dei suoi titoli di Stato, insieme al rischio di default del nostro Paese. Significa che, dal punto di vista degli investitori, nel nostro Paese ci sono almeno due partiti (Lega e Fratelli d’Italia) segnati ancora da un certo euro-scetticismo. Questo, volendolo dire brutalmente, significa che gli investitori continuano a temere che l’Italia possa un giorno volere uscire dalla moneta unica e rimborsare i BTp non più in euro ma in lire.
Tale rischio di “ridenominazione” oggi è giustamente ancora basso, ma esiste e viene quotato, ad esempio, molto di più che in Spagna. Secondo Intesa Sanpaolo il peso del rischio di ridenominazione sul rischio totale è salito al 52% da un minimo del 20% all’inizio della pandemia. Secondo Intesa SanPaolo, che è una banca italiana e non è Goldman. La quale, a sua volta, ritiene piuttosto che “un cambio di coalizione di Governo aumenterà probabilmente l’incertezza sull’implementazione del Recovery Fund”. Dobbiamo stare molto attenti a evitare che, tra una polemica demagogica e l’altra sull’uso delle armi e sull’attuazione di questa o quella riforma, gli investitori globali si convincano che l’Italia ha un problema nonostante Draghi. Perché, a quel punto, la situazione sfuggirebbe di mano per chiunque. Se almeno lo si capisse, forse, potremmo risparmiarci tanto rumore inutile e cominciare a ricostruire lo spirito vero della rinascita di un Paese.
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