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Entro fine maggio la riforma della concorrenza deve essere approvata altrimenti si perde l’assegno europeo di oltre 20 miliardi. Non si può fermare un Paese per i privilegi dei balneari. L’imminenza delle elezioni non vuole fare prendere impegni ai partiti, vogliono rinviare tutto a dopo giugno, ciò significa non solo perdere la faccia in Europa ma condannare l’Italia a un declino inarrestabile. Questo tipo di comportamenti segna l’autodelegittimazione di ogni credibilità da parte della classe dirigente politica italiana. Perché determina nei fatti una incompatibilità strutturale a rispettare qualità degli impegni e scadenze temporali concordate con l’Europa nel famoso cronoprogramma di attuazione del Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza (Pnrr) e ipoteca la crescita di lunga durata. Dobbiamo attuare 45 target, ne sono stati centrati 15, tutti gli altri sono a buon punto ma il problema è politico per le riforme e sugli investimenti per le incapacità progettuali di regioni, comuni e molti ministeri. Anche qui, dunque, il problema è molto politico

LA LEGGE delega sugli appalti è del 30 giugno del 2021 e si appresta a festeggiare il suo compleanno senza che i partiti e i loro capi abbiano dato in Parlamento segni di vita operosa.  Parliamo di qualcosa che vale oro assoluto perché significa provare almeno a uscire dal tunnel nero dei cantieri chiusi che misura l’incapacità ventennale di fare investimenti pubblici del nostro Paese. Parliamo di una delle riforme abilitanti del Piano nazionale di ripresa e di resilienza.

Abilitanti significa che se non la fai i soldi non te li danno. Il disegno di legge delega per la riforma fiscale è del 5 ottobre dell’anno scorso e quello per la concorrenza del 5 novembre sempre dell’anno scorso. Una discussione vera sul primo dossier in Parlamento non è mai partita perché sono rimasti tutti i partiti a cincischiare sul nuovo catasto e anche quando sono state date garanzie sul non aumento del gettito e sui cosiddetti parametri di mercato all’interno dell’operazione di trasparenza, lo stallo che è frutto di giochini puramente elettorali è rimasto intatto.

Il secondo capitolo è non solo abilitante per ricevere gli aiuti europei ma è anche legato a un calendario concordato per cui se non si chiude entro fine maggio comporta la perdita di una rata di oltre 20 miliardi di fondi europei a favore di tutti gli italiani, non di pochi privilegiati che non pagano nulla per fare affari con le bellezze geografiche che appartengono agli italiani. I partiti hanno utilizzato tutti questi mesi per una sfiancante operazione di mediazioni al ribasso sulla cosiddetta questione dei balneari e sulla tutela dei voti clientelari dei privilegiati e della loro rendita. L’imminenza delle elezioni non vuole fare prendere impegni ai partiti, vogliono rinviare tutto a dopo giugno, ma ciò significa non solo perdere la faccia in Europa ma condannare l’Italia a un declino inarrestabile.

Questo tipo di comportamenti, diciamocela tutta, segna l’autodelegittimazione di ogni credibilità da parte della classe dirigente politica italiana. Perché determina nei fatti una incompatibilità strutturale della nostra politica a rispettare qualità degli impegni e scadenze temporali concordate con l’Europa nel famoso cronoprogramma di attuazione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) che è frutto di debito comune europeo e banco di prova decisivo perché si possano ripetere in futuro trasferimenti netti dai portafogli delle famiglie tedesche e olandesi ai portafogli di quelle italiane e spagnole.  Ancora di più, ancora di più grave precisiamo, è il dato di fatto che questo stallo politico è incompatibile con le esigenze  della ripresa economica perché le  riforme strutturali per loro natura richiedono tempo per produrre effetti ai fini della crescita. L’effetto espansivo del bonus del decreto sostegni o di povertà o di altro provvedimento a volte giusto a volte clientelare è immediato, produce subito i suoi effetti espansivi, ma perché si possano concretamente toccare gli effetti sulla crescita della riforma fiscale e della concorrenza dal momento in cui è in vigore c’è bisogno di anni.

Se noi impegniamo il tempo dell’esercizio della responsabilità politica sovrana conferitaci dai cittadini con il loro voto al solo fine di moltiplicare il tempo per approvare il provvedimento di delega, vuol dire che abbiamo costruito con le nostre mani l’atto di auto esautoramento della politica toccando il punto più basso della sua storia e non siamo nemmeno capaci di renderci conto che rischiamo di  bruciare l’ultima opportunità offertaci dall’Europa.

Entro giugno per superare l’esame europeo e incassare poi a settembre l’assegno di oltre 20 miliardi dobbiamo attuare 45 target e, al momento, ne sono stati centrati un terzo (15), ma tutti i soggetti esecutivi sono a buon punto per rispettare entro la scadenza gli altri due terzi di target con qualche difficoltà in più per la transizione digitale e per il ministero dello sviluppo economico a causa della numerosità e della maggiore complessità dei loro provvedimenti. In un paio di casi come aiuti di stato (sviluppo economico) e lotta all’evasione pesano i ritardi delle osservazioni europee e dell’autorità per la privacy italiana. In questo contesto è quindi chiaro a tutti perché Draghi abbia fatto i passi che ha fatto – consiglio dei ministri ad hoc per ribadire impegno e farsi autorizzare il voto di fiducia e lettera alla presidente del Senato per ribadire la cogenza di approvare entro questo mese la riforma della concorrenza – così come è chiaro a tutti l’obiettivo di fare capire in modo nettissimo ai partiti della coalizione di governo che con il mandato costitutivo del suo esecutivo, che coincide peraltro con gli interessi vitali del Paese, non è più consentito a nessuno di prendere ancora tempo o fare giochini sottobanco. 

Il problema italiano di oggi è questo, non altri. C’è, però, un secondo punto che sappiamo essere ben presente a Palazzo Chigi e al Mef, ma che è bene non dimenticare di sottolineare. Allo stallo politico sulle riforme che sono l’Italia di domani e di dopodomani che solo un governo di unità nazionale in una congiuntura internazionale delicatissima può sperare di raggiungere  mettendo i partiti davanti alle loro responsabilità, ce ne è un altro altrettanto vitale che riguarda l’attuazione degli investimenti anche se non mette ancora a rischio l’assegno europeo perché il grosso delle gare deve essere pronto entro la fine dell’anno e l’apertura dei cantieri è prevista nel 2023 secondo il calendario concordato. Ciò non toglie che lo shock inflattivo ha reso nulli bandi e appalti perché le imprese non rientravano più nei costi e si è fatto ricorso a 6 miliardi in prestito dai fondi di coesione e sviluppo per metterci una pezza. Così come è fuori discussione che siamo alla terza proroga dei bandi per gli asili nido di molti Comuni del Sud che non ce la fanno ed è un fatto che si siano dovuti ripetere i bandi per la banda larga  nelle aree “a fallimento di mercato” che sono quelli dove non c’è ritorno sufficiente e si è dovuta fare una nuova norma  per compensare gli operatori che non sono coperti da ritorni di mercato come è, ad esempio, nelle aree di montagna.

Anche qui vogliamo essere molto chiari. Il problema delle lungaggini autorizzative e delle capacità progettuali di Regioni e Comuni ma anche di molti ministeri non è stato risolto. Sono stati fatti passi avanti, ma non si è risolto il problema. Una vigilanza stretta su tutti i passaggi e la necessità, soprattutto per il Sud, di potere fare affidamento su una struttura tecnica centrale che indirizzi, coordini, assista, supplisca, decida sono due pallini fissi di questo giornale. A questo punto, si impongono come ineludibili.


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