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Patrizio Bianchi

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Se nel nostro Paese vuoi gli applausi devi fare riforme di carta, se vuoi essere attaccato da tutti devi fare riforme vere e mettere nel conto che una schiera di pappagalli non faranno altro che ripetere come un disco incantato tutto ciò che non va facendo l’eco di questo politico o quel sindacalista che sono i soggetti a colore del quadro storico dell’immobilismo italiano. La riforma del reclutamento e della carriera dei docenti persegue un solo obiettivo: l’aumento della qualità degli insegnanti. Che significa investire sulle persone che si occuperanno del futuro dei nostri figli. Significa avere la certezza che nostro figlio sia affidato nelle mani di docenti che sono assunti con criteri meritocratici e sono formati e continuano ad essere formati in modo adeguato. Significa valutare la ricaduta di questa scuola nell’Italia e nell’Europa dei prossimi venti anni. Chi nel sindacato e in Parlamento si prepara a dare battaglia si metta almeno una mano sulla coscienza. Per sconfiggere il più brutto dei cigni neri che è quello che abbiamo dentro di noi

La solitudine del riformista di Federico Caffè, il più keynesiano degli economisti italiani uscito una mattina di aprile del 1987 dalla sua casa romana sulla Balduina, a Monte Mario, e sparito nel nulla. Penso alla “solitudine del riformista” dell’economista e accademico abruzzese maestro di Mario Draghi. Penso alle sue parole. Alla pericolosità in bene delle idee e a quella in male degli interessi costituiti. Penso alla profondità di quelle parole. Un senso dello Stato che in questo Paese manca, la forza delle idee e la volontà di cambiare che si annacquano, si dileguano. Nemmeno le bombe della guerra nel cuore dell’Europa, in Ucraina, il rischio della fame per venti milioni di persone nel mondo e quello (reale) della terza recessione per gli italiani in meno di quindici anni, riescono a cambiare il quadro immobile di riferimento.

Questo è quello che è accaduto con la riforma del reclutamento e della carriera dei docenti della scuola italiana che è il patrimonio più importante di un Paese. Si sono viste a occhio nudo tutte le incrostazioni sindacali e politiche che hanno condotto l’Italia in venti anni a essere l’ultimo Paese in Europa per capacità di crescita. Nemmeno tre cigni neri italiani, in sequenza diretta uno dietro l’altro, bombe economiche e sociali che hanno aumentato diseguaglianze e disparità sociale, sono riusciti a rompere il collante arrugginito ma indistruttibile di quelle incrostazioni. Per capire bene di che cosa stiamo parlando ricostruiamo prima i tre cigni neri italiani, ognuno dei quali è un evento raro frutto di tante cause improbabili che avvengono tutte insieme e determinano un danno gravissimo.

Primo cigno nero. La grande crisi dei debiti sovrani che nasce da un falso in bilancio riconosciuto dello Stato greco e arriva sull’orlo del burrone del default sovrano della Repubblica italiana (2011). Un cigno nero figlio di cause di politica interna, crisi di decoro e di tenuta della maggioranza del governo Berlusconi, ma ancora di più del terremoto finanziario causato dall’errore fatale di Trichet che moltiplica la piccola crisi greca in una crisi contagiosa di tutti i Paesi del Sud Europa e di una serie di onde sismiche politico-sociali del duo Sarkozy-Merkel durate fino al 2015 che hanno determinato in modo cumulato all’Italia danni superiori a quelli di una terza guerra mondiale persa. Il Cavaliere bianco che salverà l’euro e, di riflesso, l’Italia e la Spagna dalla bancarotta di Stato si chiama Mario Draghi che come presidente della Banca centrale europea (Bce) farà l’esatto contrario di quello che ha fatto Trichet e con tre parole (whatever it takes, costi quel che costi) domerà la speculazione e vedrà riconosciuta dai mercati la forza di una reputazione personale che nessuno ha mai più messo in discussione. Questi sono i fatti che appartengono alla storia.

Secondo cigno nero. Pandemia globale da Covid cinese (fine 2019/2020) e chiusura mondiale delle attività economiche che ha fatto sparire in un anno dall’Italia quasi 9 punti di prodotto interno lordo in un’economia che era l’unica europea a non avere mai raggiunto i livelli precedenti alla crisi finanziaria del 2008/2009 più conosciuta come bancarotta (15 settembre 2008) della Lehman Brothers. È quello che negli Stati Uniti si chiama Chapter 11 ed è lo strumento impiegato per uscire dal più grande fallimento della storia americana. Che si quantifica in 613 miliardi di dollari di debiti bancari, 155 miliardi di debiti in obbligazioni e 639 miliardi di asset. Per il mondo anglosassone immerso nel circolo nero dei cattivi derivati (subprime) è la Caporetto della storia. Per noi che siamo fortunatamente fuori da quel circolo perverso di carta straccia non sarà un vero e proprio cigno nero ma, cosa gravissima, prosciugherà sin da allora le capacità di capitalizzazione delle imprese italiane. Alla crisi pandemica, vero secondo cigno nero italiano, l’Europa risponderà con un bond europeo di cui l’Italia è la prima beneficiaria (191 miliardi di euro) e il Paese chiederà aiuto di nuovo a Mario Draghi grazie alla lungimiranza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che per affrontare l’emergenza concepirà un governo di unità nazionale e ne affiderà la guida all’ex presidente della Bce. Questo governo Draghi realizza nel 2021 la migliore performance di crescita europea (+6,6%) riuscendo ad abbassare il rapporto debito/Pil da una previsione del 160 al 150%. Un miracolo da crescita tra i nuvoloni della nostra storica fragilità che modifica il giudizio degli investitori internazionali sull’Italia.

Terzo cigno nero. Il 24 febbraio del 2022 le forze armate della Federazione Russia invadono il territorio dello Stato sovrano libero dell’Ucraina e aprono una guerra nel cuore dell’Europa. Ritorna la cortina di ferro con il suo nuovo muro al centro del Vecchio Continente. Si consuma il genocidio di donne, uomini e bambini ucraini con i crimini di guerra russi. L’Alleanza Atlantica guidata dall’America di Biden che definisce Putin macellaio riacquista la prima linea della ribalta militare e diplomatica del mondo, l’Europa si accoda in modo disunito. Diventa subito la grande guerra delle materie prime e il Paese al mondo che paga il conto più salato è l’Italia perché è il più dipendente di tutti dallo Stato aggressore, la Russia, per l’energia (gas e petrolio) e dallo Stato aggredito, l’Ucraina, per il grano tenero, i frumenti e tutta la filiera delle materie prime agro-alimentari. In caso di scenario di guerra lunga si stimano danni superiori a quelli della pandemia (secondo cigno nero) di fatto si è già annullato il consolidamento della ripresa storica del 2021 oscillando tra un quadro ottimistico di crescita del 2022 del 2,3% tutta frutto degli effetti di trascinamento dell’anno precedente (recessione tecnica) a uno pessimistico di una crescita dello 0,6% che, al netto del trascinamento del 2021 del 2,3%, significa recessione profonda. Ancora milioni di nuovi disoccupati. A meno che l’Italia non faccia le riforme che si è impegnata a fare con l’Europa e la nuova legittimazione di Draghi unita alla spinta delle leadership nazionali francese e tedesca trasformi la regola del Bond europeo pandemico in una regola annuale per almeno i prossimi dieci anni.

Allora, facciamola breve, in uno scenario generale di questa portata dovrebbero cambiare in automatico forma mentis e modus operandi della politica e della società civile italiane. Purtroppo, non è così. Per cui se nel nostro Paese vuoi gli applausi devi fare riforme di carta, se vuoi essere attaccato da tutti devi fare riforme vere e mettere nel conto che una schiera di pappagalli televisivi, travestiti da giornalisti, che occupano stabilmente il talk italiano non faranno altro che ripetere come un disco incantato tutto ciò che a loro avviso non va facendo l’eco di questo o quel politico di questo o quel sindacalista di turno che sono i soggetti a colore del quadro storico dell’immobilismo italiano.

Chi a Patrizio Bianchi ha ricordato che chi tocca la scuola rovina la sua carriera politica, si è sentito dire che quella carriera lui la ha già tutta alle sue spalle. Ha detto in consiglio dei ministri che investire sulla scuola dei docenti, aumentare le risorse per la scuola, significa cambiare davvero il Paese da qui ai prossimi venti anni e tutti sono venuti dietro. È stata approvata una riforma che prevede: 1) straordinaria chiarezza del percorso di reclutamento della classe dei docenti con regole trasparenti che rimangono nel tempo; 2) grande enfasi sulla formazione iniziale dei docenti e, ancora di più, sulla formazione permanente; 3) concorsi con regolarità annuale che impediscano l’accumulo di nuove precarietà e evitino di prenotare nuove ignoranze in cattedra da dovere poi successivamente stabilizzare ai comandi del peggiore sindacalismo italiano.

Si persegue un solo obiettivo dichiarato: l’aumento della qualità degli insegnanti. Che significa investire sulle persone che si occuperanno del futuro dei nostri figli. Significa avere la certezza che nostro figlio sia affidato nelle mani di docenti che sono stati assunti con criteri meritocratici e sono stati formati e continuano ad essere formati in modo adeguato. Che sono capaci di insegnare bene le loro materie e che potranno contare su un meccanismo di incentivazione che li spingerà ad andare sempre verso il meglio della formazione e dentro un meccanismo di reclutamento che tutelerà la regolarità del concorso annuale. Significa cominciare a concepire una scuola dove tutto non si fa più premendo un bottone o rispondendo a un quiz, ma calcolando già gli impatti economici e sociali di questo nuovo modo di reclutare i docenti e di fare carriera.

Significa valutare la ricaduta di questa scuola nell’Italia e nell’Europa dei prossimi venti anni. Significa spendere 800 milioni per formare 650 mila docenti all’uso digitale e metterli nelle condizioni di insegnarne un uso responsabile ai loro studenti. Fare tutto ciò significherebbe dimostrare che la solitudine del riformista in Italia non esiste più. Possiamo dire che per il governo Draghi è così. Non sappiamo che cosa sindacati e parlamento faranno nelle prossime settimane di questa riforma nella loro più piena libertà perché sovrana, ma anche purtroppo nel loro insondabile gattopardismo. Sappiano almeno i parlamentari che per il presunto voto di questa o quella lobby sindacale potrebbero mettere in gioco il futuro dei loro figli e, con loro, quello del loro Paese. Si mettano almeno una mano sulla coscienza. Per sconfiggere il più brutto dei cigni neri che è quello che abbiamo dentro di noi.


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