Il Presidente del Consiglio Mario Draghi in Senato
6 minuti per la letturaIl Parlamento deve cooperare con l’azione di governo altrimenti subisce lo stesso discredito che ha coinvolto i capi di partito. Sulla giustizia penale e civile, ad esempio, si è già fatto un pezzo di lavoro importante, ma quello che manca perché questo lavoro entri in vigore e cambi la vita delle persone dipende dalla coerenza dei testi dei decreti delegati e dal successivo lavoro del Parlamento. Questo successivo lavoro non può procedere lentamente perché misurerebbe la distanza dei rappresentanti del popolo dalla consapevolezza dei problemi del popolo. Troppo spesso il ritardo del Paese è dipeso molto dalla lentezza con cui il Parlamento fa la sua parte o da modifiche del Parlamento che aumentano le diseguaglianze come è accaduto con il bonus edilizia. Questo non è più tollerabile. Perché la dignità dello Stato si nutre di decisioni di governo, non di applausi
Il Parlamento deve cooperare con l’azione di governo altrimenti subisce lo stesso discredito che ha coinvolto i capi di partito. Sulla giustizia penale e civile, ad esempio, si è già fatto un pezzo di lavoro importante, ma quello che manca perché questo lavoro entri in vigore e cambi la vita delle persone dipende dalla coerenza dei testi dei decreti delegati e dal successivo lavoro del Parlamento. Questo successivo lavoro non può procedere lentamente perché misurerebbe la distanza dei rappresentanti del popolo dalla consapevolezza dei problemi del popolo.
Troppo spesso il ritardo del Paese è dipeso molto dalla lentezza con cui il Parlamento fa la sua parte e questo non è più tollerabile. Sul nuovo Consiglio superiore della magistratura (Csm) bisogna fare chiarezza sui vecchi emendamenti e su quelli in arrivo della Cartabia, ma il metro di lavoro deve essere analogo. Bisognava mettere un minimo di ordine e di egualitarismo nell’utilizzo dello strumento del superbonus del 110% in edilizia per motivi etici e di tenuta del sistema, ma quel Parlamento che si è spellato le mani ad applaudire le sacrosante parole di Mattarella sulla lotta alla diseguaglianze è lo stesso Parlamento che ha eliminato quel minimo intervento che tendeva a ridurre le diseguaglianze.
L’opinione pubblica deve sostenere chi governa facendo critiche anche durissime, è ovvio, ma non con il cliché italiano pressoché immobile per cui nulla si può fare, nulla può cambiare, nemmeno mettere una pagella di merito ai professori, tutto va male. Inutile lamentarsi sempre a sproposito di pulsioni dittatoriali che esprimono solo lo sforzo di stabilire elementari regole decisionali. Se consenti a qualcuno di governare in democrazia si può fare tutto. Se non gli consentì di governare ti prenoti la dittatura.
Assumere determinati canoni di comportamento da parte di tutti – governo, partiti, Parlamento, corpi sociali – significa vivere lo spirito dell’unità nazionale e fingere di viverlo non consente di raggiungere gli stessi obiettivi. Dobbiamo cominciare a prendere coscienza che siamo un Paese che non ama i leader veri. Non amiamo chi sa fare le cose. De Gasperi non era simpatico. Non era osannato. Faceva le cose, ma non gli veniva nemmeno riconosciuto.
Nonostante facesse tutto ciò in un momento buono perché il mondo marciava verso la modernizzazione e l’Italia del Dopoguerra si inseriva dentro un trend internazionale favorevole. Fanfani che con il primo centrosinistra ha cambiato il Paese quanto De Gasperi con la nazionalizzazione elettrica, il Piano casa, le riforme della scuola a partire dalla media unica e tanto altro viene messo fuori gioco nella finta stagione della prime riforme del centrosinistra organico, gli offrirono qualche strapuntino e lui lo rifiutò sdegnosamente.
Fu fatto fuori Fanfani da figure che si sono contrapposte con successo ma non fecero mai praticamente nulla. Anche nella versione più alta riconosciuta da tutti come fu con la figura di Aldo Moro. Non difettavano all’uomo né cultura né visione strategica, di fatto però non si fece più niente e si arrivò agli anni di piombo del ’78 con il più grande dei democristiani, appunto Moro, che non nascondeva più la sua delusione e diceva a tutti che era stufo di mediare, che erano maturi i tempi per un atto di coraggio. Lo fece ignobile il terrorismo armato ammazzandolo. A dimostrazione di molte cose che riguardano la politica e la società sulle quali ancora ci si interroga, ma anche di un sentimento di fondo di un Paese che non ama essere governato, che sente come motto comune ciascuno per sé Dio per tutti.
De Gasperi non era simpatico, ma almeno la gente si rendeva conto che serviva un uomo così e dopo tutti apprezzarono le scelte compiute giudicandole dai risultati. Per Fanfani ci volle più tempo a capire che portando l’elettricità in tutte le case e facendo la media unica aveva intuito e vinto la sfida dei tempi. Che non si poteva andare avanti in una sola direzione per cui a dieci anni c’era chi andava a fare l’operaio e chi avrebbe potuto studiare.
Che non si poteva più decidere il futuro a priori dei bambini perché eravamo entrati in una società aperta con un Paese che si prepara a vivere lo schock di uscire dallo stato di Paese agricolo anche dal punto di vista mentale che voleva dire liberarsi dalle gerarchie culturali e sociali. Voleva dire capire che era arrivato il cinema,la televisione, che il punto di vista americano avrebbe cambiato il mondo e gli equilibri internazionali. Oggi siamo di fronte a una rivoluzione globale ancora più profonda segnata dalle emergenze sanitaria, economica e sociale, ma prima e dopo dalla responsabilità di comprendere il modo di intendere la produzione rispetto alla manifattura tradizionale perché sono arrivati i robot e perché l’intelligenza artificiale cambia ancora il quadro. Perché l’auto elettrica dovrebbe segnare l’uscita dalla lunga stagione del carbone, ma tutto questo genera un’incertezza e obbliga a pensare a un futuro che non può essere immaginato una volta per tutte. Proprio come è successo e continua a succedere con la pandemia.
Tutto questo esige uno standard di governo con una guida credibile in grado di esercitare una politica estremamente duttile. Che scansa le insidie e fa le cose. Che rimette in moto la macchina pubblica degli investimenti e sa tenere in mano la visione e l’esecuzione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza. Che aggredisce e risolve i nodi strutturali di fondo che riguardano la capacità di attuare le riforme della pubblica amministrazione e della giustizia. Che nella stagione del debito non più facile fa in modo che gli investitori globali e i grandi player monetari come la Banca centrale europea (Bce) non esauriscano troppo presto la loro pazienza. Questo standard di governo e questa guida internazionale così tanto riconosciuta fuori casa esigono che cessi subito la stagione dei fraintendimenti politici.
Perché deve essere chiaro a tutti che se il Parlamento e le forze politiche fossero stati all’altezza della situazione oggi avremmo un governo con una guida politica e un nuovo presidente della Repubblica sempre politico. Invece sul Colle più alto c’è un grandissimo Capo dello Stato che è stato confermato per altri sette anni e abbiamo un governo che vuole fare quelle riforme impopolari che loro non farebbero mai e che servono con urgenza al Paese sotto la guida dell’ex presidente della Banca centrale europea. Questi due uomini, Mattarella e Draghi, rappresentano la dignità dello Stato, ma questa dignità si nutre di decisioni di governo, non di applausi. Se lo ricordino bene Parlamento, partiti e capi partito.
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