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Antonio Decaro, sindaco di Bari

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Non possiamo vincere nessuna guerra se le strutture tecniche delle nostre amministrazioni non vengono adeguatamente rimpolpate e uomini del valore di Manfredi o del sindaco di Bari Decaro non sono messi nelle condizioni di guidare il processo di cambiamento delle loro amministrazioni e di tutte le amministrazioni meridionali. Bisogna ricostituire la filiera tecnica che qualcuno ha deciso di abolire perfino nella amministrazione territoriale più importante
del Mezzogiorno, non in un piccolo Comune della più sperduta delle zone interne.  Per cambiare il rapporto tra le amministrazioni e le intelligenze universitarie. Per mobilitare correttamente sinergie tra capitale pubblico e privato. Per fare finalmente rete tutti insieme

I GATTOPARDI dei partiti italiani o cambiano o non cambiano. Non esistono vie di mezzo. Non esistono i cambiamenti della mattina annunciati a destra e a manca smentiti puntualmente dai comportamenti reali della sera. I Gattopardi dei partiti italiani debbono fare le cose per il Paese e per la serenità delle loro coscienze. Non devono più difendere gli amici degli amici nella macchina della amministrazione centrale e, ancora di più, in quella territoriale perché con questi signori i progetti buoni non si fanno, non si è in grado neppure di gestire i progetti fatti dagli altri, semplicemente si perdono i soldi. Con questi comportamenti il Mezzogiorno non riparte e l’Italia non riesce a trasformare il rimbalzone di quest’anno in una crescita strutturale, sostenibile, inclusiva.

La Ricostruzione nazionale o si fa riunendo le due Italie nelle infrastrutture immateriali e materiali e ponendo al centro l’investimento in capitale umano o semplicemente non si fa. Se esiste un prototipo che è il contrario dell’amministratore meridionale lamentoso questo è il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi. Non a caso con lui ha trovato terreno fertile la denuncia inascoltata di questo giornale. Prendere atto che l’amministrazione comunale di Napoli guidata dall’ex sindaco, Luigi de Magistris, non ha presentato nemmeno un progetto per il bando di gara sulla ristrutturazione delle scuole significa prendere atto a quali abissi sudamericani è stato condotto il nostro Mezzogiorno da una classe politica sul territorio popolata da viceré regionali e sindaci populisti.

Significa prendere atto che il cuore del problema della nuova questione meridionale non sono i soldi da chiedere come ennesima mancia dal cielo o come giusto risarcimento di un taglio miope subìto nella spesa sociale sotto la spinta di un federalismo della irresponsabilità tanto predone quanto poco lungimirante.

Significa prendere atto che il cuore del problema è dotare le amministrazioni meridionali di un personale finalmente qualificato e di un’organizzazione del lavoro strutturata che duri nel tempo.

Per cambiare praticamente tutto. Devono cambiare le teste. Bisogna ricostituire la filiera tecnica che qualcuno ha deciso di abolire perfino nella amministrazione territoriale più importante del Mezzogiorno, non in un piccolo Comune della più sperduta delle zone interne. Per cambiare il rapporto tra le amministrazioni e le intelligenze universitarie. Per mobilitare correttamente sinergie tra capitale pubblico e privato. Per fare finalmente rete tutti insieme. Per queste ragioni abbiamo aperto ieri il nostro giornale con “il grido di Napoli: ora o mai più” del sindaco, Gaetano Manfredi, e lo rifacciamo oggi con una sua lettera al nostro giornale che mostra piena consapevolezza della prova di maturità che è richiesta alla nuova classe dirigente meridionale in questo momento particolarissimo.

È tempo di Draghi, non più di Gattopardi, abbiamo scritto qualche giorno fa. Lo ripetiamo oggi con ancora maggiore forza. Bisogna che si assumano impegni pubblici reciproci perché sia chiaro a tutti che la stagione delle clientele e della quota zero nell’utilizzo dei fondi comunitari è finita per sempre. Bisogna capire una volta per tutte che una cosa è chiedere risorse per fare la digitalizzazione della amministrazione comunale più importante da Roma in giù, per assumere esperti di amministrazione e di territorio che insieme a quelli informatici cambiano per l’oggi e per il domani l’organizzazione e l’efficienza della macchina pubblica di Napoli e una cosa è chiedere soldi, sempre più soldi, per fare nuovo debito e socializzare perdite all’infinito. Senza vedere, cioè, la luce dello sviluppo che è fuori dal tunnel dell’assistenzialismo in cui il circuito perverso di miopia nordista e lamentazione sudista trova il suo ambiente naturale.

Questo è il punto decisivo della nuova questione meridionale che è costitutivamente il punto decisivo della nuova questione italiana e europea allo stesso tempo. Perché, diciamocela tutta, il programma di Next Generation Eu, frutto per la prima volta di debito europeo comune, è di sicuro il banco di prova della nuova Europa della coesione sociale che ha in Mario Draghi il suo leader naturale e nella soluzione del suo unico grande squilibrio territoriale, che è il Mezzogiorno d’Italia, il perimetro di un terreno da gioco che definisce il successo o l’insuccesso del programma europeo. Per questo continuiamo a dire e a ripetere che non è più tempo di Gattopardi ma di Draghi. La stagione “datemi i soldi e io ne faccio quello che voglio” è finita per sempre. Quella che deve iniziare ha come soggetti attuatori di prima fila del Recovery Plan italiano ministeri e Comuni.

Non possiamo vincere nessuna guerra se le strutture tecniche delle nostre amministrazioni non vengono adeguatamente rimpolpate e uomini del valore di Manfredi o del sindaco di Bari Decaro, che è anche il presidente dei sindaci italiani, non sono messi nelle condizioni di guidare il processo di cambiamento delle loro amministrazioni e, a seguire, di tutte le amministrazioni meridionali. Chiedono soldi per immettere competenze come scrive Alberto Losacco, parlamentare illuminato del Pd pugliese, che invita lucidamente a fare il lavoro che si deve fare in Parlamento perché dalla legge di stabilità arrivi e bene quello che deve arrivare. Ignorare questo problema tecnico-esecutivo che è allo stesso tempo un problema di risorse umane e di organizzazione nascondendosi sotto la foglia di fico della programmazione attribuita ai viceré regionali e volendo così comprimere per ragioni di mero potere un programma nazionale finanziato da fondi europei significa avere messo nel conto il fallimento del piano italiano.

Questo non è possibile. Non lo vuole il governo Draghi che fa i conti con la realtà e mette a disposizione dei piccoli comuni grandi architetti per fare progetti unici a livello centrale per scuole e asili nido. Che mette a disposizione, come fa bene a ricordare sempre la ministra per il Mezzogiorno, Mara Carfagna, le strutture tecniche centrali di Cassa depositi e prestiti e altre ancora per affiancare dalla progettazione alla esecuzione nella gestione dei singoli interventi tutte le amministrazioni che ne fanno richiesta. Non si va oltre, per ora, perché dall’attuazione di questo piano europeo deve uscire un Paese nuovo che continua a fare investimenti pubblici e a mobilitarne di privati anche quando finisce tale programma europeo. Questo è il più nobile degli obiettivi e non può essere abolito ab origine senza avere almeno provato a perseguirlo con il massimo di determinazione.

Bisogna ricostituire amministrazioni territoriali e centrali che dialoghino in inglese economico con la Commissione europea, che sappiano fare e rendicontare step dopo step sui singoli progetti, bisogna che la regia torni ad essere centrale e che l’obiettivo strategico di lungo termine condiviso e effettivamente perseguito sia quello di risolvere una volta per tutte lo squilibrio territoriale italiano. Non ha futuro un Paese con venti milioni di persone che hanno un reddito pro capite pari alla metà degli altri quaranta milioni. Perché significa rinunciare in partenza ad avere un mercato interno di dimensioni quantitative e qualitative indispensabile per sostenere la crescita a tassi da miracolo economico di un Paese trasformatore e esportatore ma minato dalle fondamenta da un dualismo trasversale che mette insieme il ritardo del Mezzogiorno e dei Sud del Nord. Qualcosa di straordinariamente decisivo e di straordinariamente sottovalutato.

I Gattopardi dei partiti italiani possono continuare a fare i loro giochetti sul Quirinale e a chiedere strumentalmente che Draghi resti lì un altro anno a fare poco e niente ma loro verrebbero travolti per sempre se questo scenario si avverasse. Se l’Italia ha ritmi di crescita da miracolo economico che non si conoscevano da mezzo secolo lo si deve alla mano fermissima di Draghi sul green pass che è un modello che l’intera Europa seguirà. Se il Recovery Plan è bene incardinato e se riforme che non si facevano da decenni sono legge lo si deve alla mano ferma di Draghi. I Gattopardi dei partiti italiani impegnino le loro energie per chiedere tutti insieme di votare il salvatore dell’euro alla presidenza della Repubblica e dimostrino in Parlamento di volere cambiare davvero il Paese dando ancora più forza al Mezzogiorno nella legge di stabilità, accentuando la riduzione dei prelievi su lavoratori e imprese nell’attuazione della delega fiscale e spingendo, non frenando, sulle aperture di mercato della legge delega della concorrenza.

Draghi non ha la bacchetta magica e un uomo da solo non può salvare il Paese. Almeno questo i Gattopardi dovrebbero capirlo. Trarne le conseguenze è obbligato.


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