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La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome

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Il delirio di questo potere autoreferenziale costituisce il frutto avvelenato del federalismo all’italiana della irresponsabilità che è la prima causa della ventennale crescita zero e dell’allargamento del solco delle disparità territoriali. Il problema non riguarda solo la sanità ma anche il trasporto pubblico locale e, in modo differente, la scuola

“C’è un ingranaggio di continuità di potere nelle Regioni italiane in materia sanitaria che oggettivamente mi impressiona. Nominano gli amministratori e i controllori. Siamo davanti a circuiti autoreferenziali che se la cantano se la suonano e se ne vantano. In Inghilterra questo pasticcio non sarebbe possibile. Perché si individuano i portatori di interesse che sono i cittadini, i pazienti e gli operatori sanitari e loro sono scelti come controllori. In Italia questi soggetti che sono i veri stakeholder di un ospedale non compaiono mai. I controllori non sono loro, ma i mandatari degli interessi politici di parte che sono gli stessi che nominano i direttori sanitari, i primari e i controllori.”

Sono seduto a fianco di Andrea Crisanti a Monopoli, sul mare della costa barese, e ci consegnano il premio Genesis “Scienza&informazione”. A lui per “Caccia al virus” scritto a quattro mani con Michele Mezza edizioni Donzelli e a me per “Mario Draghi il ritorno del cavaliere Bianco” edizioni La Nave di Teseo. Il lungo testo tra virgolette con cui apro in modo anomalo questo editoriale è integralmente suo, ma ho deciso di riproporlo in quella posizione perché condivido tutto, dalla prima all’ultima riga, del pensiero di Crisanti.

Credo che la cosa non riguardi, purtroppo, solo la sanità. Riguarda di sicuro il trasporto pubblico locale e, in modo differente, la scuola. Coinvolge o lambisce tutti i settori dell’economia perché il bilancio tutto delle Regioni esprime al meglio il delirio di questo potere autoreferenziale e costituisce il frutto avvelenato del federalismo all’italiana della irresponsabilità che è la prima causa della ventennale crescita zero e dell’allargamento del solco delle disparità territoriali.

Diciamo le cose come stanno. Su questi temi decisivi per una classe di governo che voglia rispondere davvero ai bisogni delle persone prima c’era una navigazione politica che esprimeva valori e selezione pur tra cadute di interessi individuali ma sempre collocati il più possibile dentro un interesse generale e dentro una visione unitaria di Paese. Con l’avvento delle Regioni tutto questo è stato sostituito da una dinamica personale fatta ora, non sempre ma molto spesso, solo di gestione di potere che è la somma algebrica di clan di potere familistici. Una vergogna assoluta pagata a piè di lista dal bilancio pubblico nazionale.

Una volta, interpellato in materia sanitaria o scolastica, solo per fare qualche esempio, potevi sentirti dire: non si fa così, scegliamo questo e non quello perché questa è la linea della nostra politica e questi sono gli uomini più capaci per attuarla e questi, non altri, sono i fatti che permettono di conseguire gli obiettivi che ci siamo posti. Oggi dalle Regioni ti senti dire brutalmente “il presidente non vuole” senza spiegazione alcuna.

Al massimo, qualcuno del sottobosco non ancora all’apice delle cattive pratiche potrà farti capire che il presidente non vuole perché questo interesse di cui sei portatore è contrapposto all’interesse del presidente che deve vincere.

Ci siamo ridotti a una politica nei venti stati ombra dove se non girano i soldi non si fa coagulo di interesse e non hai potere e, quindi, devono girare sempre più soldi e tutto, anche i bandi degli asili nido dei Comuni o delle piazze sempre dei Comuni da riqualificare, debbono passare per le stanze di comando della Regione. Non fa niente se si rischiano di perdere i soldi europei del Piano nazionale di ripresa e di resilienza così come non fa niente se si rischia di buttare alle ortiche l’ultima grande occasione storica per provare a riunire le due Italie e a fare ripartire il Paese. L’importante è che tutto questo ben di Dio passi per il banchetto della politica dello staff. Che è quella del presidente della Regione, del consulente, dell’addetto stampa e dell’autista. Che è il solo circolo ristrettissimo autoreferente che decide. Gli altri sono fermi, fanno parte del mobilio.

Chi perde le elezioni nove volte su dieci si dimette perché per lui non è disponibile una meccanica istituzionale che consenta di fare opposizione seriamente. Il ministro Bianchi ha dovuto sudare le classiche sette camicie per riaprire la scuola in sicurezza perché quando incroci la sanità regionale o la gestione regionale del trasporto locale puoi solo metterti le mani nei capelli anche perché l’esercizio continuato e aggravato di questo potere familistico ha affinato le tecniche di resistenza e le azioni di predaggio del bilancio pubblico nazionale. Per fare ripartire l’Italia per davvero bisogna uscire da questo federalismo dell’irresponsabilità tanto miope quanto iniquo.

Ci sono solo due strade percorribili. La prima è togliere i soldi alle Regioni consegnandoli solo a un ruolo di programmazione, chi gestisce e chi controlla non possono essere loro. La seconda strada è fare il Senato delle Regioni e sancire in questa solenne sede parlamentare le stesse decisioni indicate nella prima ipotesi. Chi sostiene che tutto ciò non è più possibile o non è consapevole della gravità della situazione o non vuole vedere.


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