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Prove di ritorno a un Paese normale. Anche nella graduatoria delle sofferenze di chi ha meno riuscivamo a fare cittadini di serie A e cittadini di serie B. Ora non è più così. Si deve fare anche con la sanità e con la scuola ma vanno riequilibrate le risorse, non aumentata la spesa. Ritroveremo la dignità perduta di un Paese ritornato finalmente normale
È stato un punto d’onore di questo giornale dal suo primo giorno di uscita. Nessun futuro può avere l’Italia se continuano a essere negati i diritti di cittadinanza a una parte rilevante della sua popolazione.
Abbiamo documentato in assoluta solitudine numero per numero il divario abnorme nella distribuzione pro capite della spesa sociale e infrastrutturale tra le due Italie. Abbiamo indicato con chiarezza nella spesa storica l’elemento chiave di questo patto lazzaronesco che ha messo insieme gli interessi miopi della Destra lombardo-veneta a trazione leghista con la Sinistra Padronale tosco-emiliana.
Un patto di interessi che ha avuto nella Conferenza unificata delle ingiustizie che è la Conferenza Stato-Regioni il suo riparo opaco fuori dalla Costituzione e sotto le insegne del federalismo italiano della irresponsabilità.
Si sono inventati insieme la Destra e la Sinistra un marchingegno, appunto la spesa storica, per cui il ricco diventa sempre più ricco e il povero diventa sempre più povero. Qualcosa che arriva all’abnormità di una spesa di investimenti pubblici pro capite nella sanità per un cittadino emiliano-romagnolo pari a più di cinque volte di quella destinata a un cittadino calabrese e sempre più del doppio di quanto erogato a un cittadino campano o pugliese. Vergogne italiane.
In questo mosaico delle miopie italiane ci sono alcuni tasselli particolarmente odiosi. Sono quelli che riguardano gli asili nido, l’assistenza agli anziani o ai disabili, case famiglia, centri educativi o servizi sociali. Sono la prima soglia della spesa sociale perché riguarda i più deboli. Anche qui nelle graduatoria delle sofferenze di chi ha meno riuscivamo a fare cittadini di serie A e cittadini di serie B. Ora non è più così.
Perché la spesa pubblica per i servizi sociali e gli asili nido destinata al Comune di Reggio Calabria passa dai circa 78 euro pro capite a 102,83. A Matera da 68,46 a 89,38 euro. Queste cifre reali migliorano ancora negli anni a venire e valgono per i Comuni del Sud dolosamente lasciati indietro e, cioè, tutti.
È merito del governo Draghi avere operato questa scelta che toglie dal tavolo il marchingegno avvelenato della spesa storica e introduce la ridefinizione dei fabbisogni standard non più individuati sulla base del livello medio storicamente offerto, ma del livello di servizi e della spesa standard delle realtà più virtuose.
In questo passaggio c’è una rivoluzione culturale che è il principio di base di una società economica liberale che ritrova la sua anima sociale smarrita e definisce un’identità civile completamente nuova.
È merito della viceministro dell’Economia, Laura Castelli, avere condotto e vinto questa battaglia nella commissione tecnica per i fabbisogni standard del ministero dell’Economia e delle finanze, ma è merito politico del governo Draghi e del titolare dell’economia, Daniele Franco, avere sostanziato in nuovi criteri l’utilizzo fino al 2030 in misura crescente delle risorse del Fondo di solidarietà comunale (Fsc).
Vogliamo essere molto chiari. Non si potrà procedere continuando a dare di più a chi ha meno senza toccare chi ha di più nella spesa sociale che riguarda la scuola e la sanità. Perché le somme in gioco sono così rilevanti che metterebbero a rischio la stabilità finanziaria del Paese per cui è evidente che la spesa pubblica ordinaria dovrà fare nei prossimi anni quello che avrebbe dovuto già fare almeno dieci anni fa.
Vale a dire: chi riceve indebitamente molto di più rinuncia a un pezzetto di quel molto di più che indebitamente si autoassegna e chi riceve indebitamente molto di meno di quello di cui avrebbe diritto avendo in tasca lo stesso passaporto repubblicano riceve quel pezzetto di più via via crescente che può condurre nell’arco di dieci anni a un reale riequilibrio.
Magari in un Paese che torna a crescere dopo venti anni di stagnazione il processo risulta anche meno complicato da percorrere. Guai, però, a rinunciarvi perché vorrebbe dire che tornano a prevalere i miopi egoismi che hanno ridotto l’Italia a essere il grande malato d’Europa.
Questo è il punto di fondo. Che non può, però, prescindere dal fatto che la coerenza meridionalista del governo Draghi è un qualcosa che si tocca ogni giorno di più. Ha nelle scelte strategiche compiute di allocazione territoriale degli investimenti all’interno del Recovery Plan, nel pacchetto di riforme già approvato per cambiare l’operatività della macchina pubblica e nell’idea perseguita di un’Europa sempre più federale e coesa, un triangolo di ferro che delimita il perimetro di cambio di gioco radicale nell’affrontare la questione meridionale italiana.
Quelli che sono avvenuti fino a oggi sono fatti, non parole. Non smetteremo mai di mettere in guardia i nostri lettori dalle insidie delle canzoncine elettorali dei capipopolo vecchi e nuovi. Smettiamola di chiedere ciò che già ci è stato dato e mettiamoci viceversa nella condizione di sfruttare al meglio questa opportunità storica che, di sicuro, è anche l’ultima.
Dobbiamo cambiare nelle teste e nei comportamenti e dobbiamo ritrovare l’orgoglio di un Sud di talento che non teme le sfide e trasmette fiducia contagiosa. Più ci allontaniamo e isoliamo capi bastone e accoliti più velocemente ripartiremo. Ritroveremo la dignità perduta di un Paese ritornato finalmente normale.
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