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Vogliono essere loro a decidere cosa dare o non dare al singolo Comune e perpetuare le consuetudini della somma ingiustizia distributiva territoriale. Questo assalto non è passato perché i fondi sono nazionali, il piano è nazionale, l’obiettivo dell’Europa che finanzia è il riequilibrio territoriale, le somme del Recovery e del Fondo complementare non riguardano le funzioni dello Statuto speciale né quelle delegate delle Regioni. Ma bisogna vigilare perché il Paese ha bisogno di accorciare la catena di comando e di fare l’esatto opposto di quello che ha fatto negli ultimi venti anni
Riforma agraria. Piano casa. Nazionalizzazione elettrica. Piano Sud. Scuola media unica. Sono solo alcuni dei titoli di un riformismo concludente che ha posto le basi con il centrismo degasperiano e il primo centrosinistra a guida fanfaniana della compiuta trasformazione di un Paese agricolo di secondo livello uscito in macerie dalla seconda guerra mondiale in una economia industrializzata e, addirittura, in una potenza economica mondiale.
La sfida di oggi che ha davanti Draghi è quella di riportare uno dei Paesi più fragili dell’Europa, l’Italia ricevuta in eredità dal ventennio della crescita zero, al rango di Fondatore in Europa e a un ruolo di protagonista nella definizione del nuovo multilateralismo che sarà la Bretton Woods del nuovo mondo.
È una sfida che mette insieme la portata della doppia sfida vinta dall’Italia del Dopoguerra con il centrismo degasperiano e con il centrosinistra fanfaniano.
Perché questa lunga premessa di cui chiedo scusa? Semplicemente per dirvi che anche se continuano a parlarvi di tavolini e di posti a tavola all’aperto e al coperto, il futuro dell’Italia è nel decreto unico di Semplificazioni e nuova governance già approvato e quello in arrivo sui nuovi reclutamenti nella pubblica amministrazione.
Bisogna capirlo una volta per tutte. Non si può andare avanti con il codice dei non appalti di Delrio e non si gioca neppure la partita del Recovery con le fragilità di sistema amministrative, civili, penali e, più di tutte, regionaliste e a statuto speciale nella forma più deteriore possibile che è quella del federalismo italiano della irresponsabilità, sintesi algebrica del più miope degli egoismi nazionali.
Questo giornale ha totale fiducia in Draghi e nel suo metodo di governo.
Che significa decidere, mediare, decidere. Soprattutto, decidere, non decidere di ragionare ancora e di rinviare sempre. Il soggetto unico di controllo, monitoraggio e rendicontazione presso la Ragioneria generale dello Stato, la struttura dedicata a specchio di ogni singolo ministero e la cabina di regia a Palazzo Chigi con poteri di richiamo su regioni e ministeri inadempienti costituiscono la clausola di salvaguardia del Paese e la norma più rilevante di attuazione della coerenza meridionalista del Progetto Italia nella effettiva realizzazione della riunificazione infrastrutturale immateriale e materiale delle due Italie e, ancora prima, della sua riunificazione civile e sociale.
Questo è il principio di uguaglianza violato così magistralmente richiamato dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, nel discorso più bello fino a oggi del suo Settennato.
Allora deve essere chiaro a tutti che non è più tollerabile, oltre che pericolosamente miope, proseguire con un sistema che consente ai Comuni dell’Emilia-Romagna, fonte Corte dei Conti, di avere una spesa sociale pro capite pari a circa quattro volte di più di quella dei Comuni della Campania e della Puglia.
Per non parlare dei Comuni del Friuli Venezia Giulia che distribuiscono circa sei volte di più di quelli campani e pugliesi.
Davanti a questo sconcio che non può essere risolto con altro deficit che poi diventa altro debito, ma con un positivo riequilibrio abbiamo dovuto constatare che le autonomie speciali pretendono che anche i soldi del Recovery Plan devono passare da loro e che sulle procedure finanziarie le Regioni vogliono essere sentite nella Conferenza unificata.
Vogliono essere loro a decidere cosa dare o non dare al singolo Comune e perpetuare le consuetudini della somma ingiustizia distributiva territoriale. Questo assalto non è passato perché i fondi sono nazionali, il piano è nazionale, l’obiettivo dell’Europa che finanzia è il riequilibrio territoriale, le somme del Recovery e del Fondo complementare non riguardano le funzioni dello Statuto speciale né quelle delegate delle Regioni.
La coperta del bilancio dello Stato è quella che è, sulla sanità si deve investire e sulle pensioni si hanno le mani legate, se tagli i trasferimenti agli enti locali aumentano all’istante le tasse sui cittadini.
Allora, a partite invariate, riequilibrare la spesa sociale lasciando il privilegio indebito alle Regioni ricche e aumentando quello che si dà alle Regioni povere non è semplice.
Pensare di perpetuare ulteriormente, anche con i nuovi fondi europei a gestione nazionale, il criterio della sperequazione indebita non è più solo miope ma rasenta la frode istituzionale.
Il Paese ha bisogno di accorciare la catena di comando e di fare l’esatto opposto di quello che ha fatto negli ultimi venti anni. Se non lo fa è spacciato in partenza e questo vale per i ricchi come per i poveri. Ricordiamocelo.
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