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Il testo del Piano nazionale di ripresa e resilienza

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Come accadde negli anni del Dopoguerra si doti il Mezzogiorno di una centrale di progettazione e tutte le forze del territorio imprenditoriali e istituzionali si mobilitino per cogliere l’occasione del secolo non per blaterare insieme agli sceriffi del passato e ai capipopolo che si vogliono candidare al loro posto con ancora più demagogia e ancora meno competenza. Deve cambiare lo spirito e deve cambiare in fretta. Riflettiamo sulle coincidenze e sulla lezione che ci vengono dal racconto di Piovene della Napoli del 1955 e approfittiamo della coerenza meridionalista del disegno di sviluppo di Draghi a partire dalle semplificazioni e dalla nuova governance

Un mio amico modenese-bolognese che mastica come pochi di energia, ambiente e futuro mi ha sorpreso. Mi dice: sai che cosa sono andato a rileggere in questi mesi di lockdown? No, rispondo io. E lui: Viaggio in Italia di Guido Piovene e mi è rimasto impresso quanto e come parla della Cassa per il Mezzogiorno. Siamo a Napoli nel 1955.

Sono andato a riguardare questi passaggi. Si legge di “arrestare il declino e rovesciare la corrente” attraverso la Cassa del Mezzogiorno che “ha il pregio di avere affrontato in modo organico il problema del Sud” con un piano di spesa in 12 anni di 1280 miliardi di lire: servizi pubblici, agricoltura, bonifiche e riforma agraria, acquedotti e fognature e poi opere stradali. L’obiettivo è creare un ambiente industriale dove manca e favorire l’investimento delle imprese private. “La Cassa investe 300 milioni al giorno e questo si vede…” scrive Piovene.

A chi dice che si perde un po’ per strada, che c’è qualche spesa malfatta, Piovene fa rispondere il liberale parsimonioso Epicarmo Corbino con un vecchio proverbio gastronomico napoletano: a chi fa le tagliatelle, casca la farina per terra. Sono parole del ministro del Tesoro e ministro dell’Industria del primo e del secondo governo De Gasperi che disse di lui: se Corbino non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Quest’uomo minuto racconta a Piovene che non vuole scrivere più libri di economia e vuole dedicarsi alla pesca, ma lo aiuta a capire lo spirito positivo di ricostruzione della Napoli e del Mezzogiorno degli anni che mettono le basi del miracolo economico italiano.

Appaiono in sequenza l’Ilva di Bagnoli, i cementifici, le grandi industrie tessili. Poi la Cirio “maggiore industria alimentare” d’Europa, il primato farmaceutico della Lepetit per gli antibiotici, la Olivetti di Ivrea e le “imprese straniere” che stanno insieme, la leadership del porto di Napoli in Italia per il traffico di passeggeri. C’è una mano d’opera “abilissima e attiva” segnala Piovene. L’ingegnere piemontese Giacomo Giraudo gli parla del lavoro industriale e dell’operaio napoletano che per temperamento “tende naturalmente alla specializzazione” e ha “più fantasia dell’operaio settentrionale”. Potremmo definirlo “operaio artigiano se non artista”.

Piovene vede “negli occhi degli anziani l’uscita dalla decadenza”, la voglia loro e dei loro figli e nipoti di rialzarsi dopo “i danni della guerra calcolati tra i 350 e i 400 miliardi, l’industria spezzata” nonostante i “rimborsi limitati e tardivi” rispetto a quelli ricevuti dal Nord. Scrive che “la situazione è tutt’altro che grave soprattutto è in fase ascendente… le multinazionali e le imprese di iniziativa settentrionale danno una mano”. Napoli, insomma, vive una stagione di “evidente e vistoso progresso”.

Anche se ha la stessa popolazione di Milano ma non ha i complessi industriali che ha Milano e non ha la Fiat che ha Torino “a cui tutti pagano una tassa comprando l’auto”. Anche se ha un tasso di crescita demografica superiore a quello del prodotto interno lordo e sconta, rispetto al Centro-Nord, la netta inferiorità del turismo. Che si spiega con “la deficienza delle condizioni ferroviarie e stradali, il numero minimo di alberghi di lusso e la scarsezza delle stazioni di cura che sono 19 in tutto il Mezzogiorno su 183 esistenti in Italia”. Piovene lascia la città con il rimpianto della Napoli viva “una straordinaria metropoli di spirito cosmopolita” che ha visto e sentito, e con la consapevolezza che Sorrento, Amalfi e le tante bellezze del Sud non meritano di essere ignorate come ancora avveniva allora. Fermiamoci qui.

Sono passati quasi settant’anni. Sfatando i mille luoghi comuni gli alberghi di lusso nel Mezzogiorno oggi ci sono eccome perché l’iniziativa privata ha risposto e la Cassa ha molto aiutato. Si registrano oggi come allora le “deficienze ferroviarie”, lo “stato delle scuole con un asilo in Piemonte ogni 1500/1800 abitanti e in Calabria ogni 7000/9000”, la carenza di “stazioni di cura” perché un federalismo irresponsabile costruito sulla suprema ingiustizia della spesa storica ha tagliato drasticamente la spesa pubblica scolastica e sanitaria nelle regioni meridionali e ha addirittura abolito la spesa pubblica per le infrastrutture di sviluppo a partire da quelle dell’alta velocità ferroviaria.

Parliamoci chiaro. Oggi il Progetto Italia che assorbe Pnrr, fondo complementare e extra, riflette la stessa logica lungimirante di allora e ne aumenta le dimensioni quantitative dell’impegno. Da qui al 2027 sono disponibili calcolabili 231 miliardi di euro tra fondi italiani e europei elevabili almeno fino a 250. A condizione, però, che non si ripetano gli scivoloni inqualificabili del ministro Giovannini che spaccia in Parlamento uno studio di fattibilità dell’alta velocità Salerno-Reggio Calabria come un progetto esecutivo. A condizione che si trovi il coraggio di non nascondersi dietro gli studi sugli attraversamenti di mare per non fare il Ponte sullo Stretto che invece potrebbe aprire i cantieri anche domani e che sarebbe sicuramente in grado di attrarre capitali di investitori anglosassoni. Farebbero bene i Capi delle Regioni del Sud che hanno il primato mondiale dell’inefficienza nell’utilizzo dei fondi comunitari e continuano a chiedere soldi che non saprebbero spendere, a rinunciare perlomeno alle marchette dei progetti sponda del fondo di coesione. Sono arrivati alla fine della scadenza (2021) senza avere neppure programmato 30 dei 54 miliardi disponibili dal 2014. Per farsi parzialmente perdonare facciano ora almeno il bel gesto e gli atti costituzionali necessari per dare loro tutti insieme il capitale di avvio del Ponte sullo Stretto.

Come accadde negli anni del Dopoguerra si doti il Mezzogiorno di una centrale di progettazione e di esecuzione e tutte le forze del territorio imprenditoriali e istituzionali si mobilitino per cogliere l’occasione del secolo non per blaterare insieme agli sceriffi del passato e ai capipopolo che si vogliono candidare al loro posto con ancora più demagogia e ancora meno competenza. Oggi come allora il Comune di Napoli ha sulle spalle un grande deficit e qualcosa, forse, questa coincidenza vorrà dire. Come ripeterebbe Piovene anche oggi il Mezzogiorno si deve liberare “dall’atavico attendere il bene dallo Stato come in passato dalla reggia” e deve investire piuttosto sul capitale umano che ha formato e su quello che verrà aiutato a formare per liberare imprese e cittadini dalla gabbia amministrativa e clientelare.

Ciò che deve cambiare è lo spirito e deve cambiare in fretta. Basterebbe quello della Napoli di Piovene del 1955. Servono soprattutto progetti innovativi perché ora l’unica cosa che non manca sono i soldi e si può sfruttare in tutti i campi la coerenza meridionalista del disegno di sviluppo di Draghi a partire dalle semplificazioni e dalla nuova governance. Si può fare, bisogna crederci. Dipende da noi, direbbe Carlo Azeglio Ciampi.


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Fabio Grandinetti

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