Mario Draghi durante l'incontro di ieri con i sindacati a Palazzo Chigi
6 minuti per la letturaNei prossimi dieci giorni si gioca tra Consiglio dei ministri, Parlamento, dialogo con le forze sociali e allineamento delle Regioni, la partita del futuro del Paese. Si possono impacchettare i progetti più belli del mondo, ma senza una governance del Recovery Plan italiano che consente di tagliare i tempi autorizzativi e conferisce poteri di richiamo allo Stato sulle stazioni appaltanti, e senza le riforme della pubblica amministrazione e della giustizia civile nessuno potrà garantire che i 500 miliardi di debito pubblico da qui al 2026 che ci siamo caricati sulle spalle si rivelino debito buono. Perché la quota di crescita sana legata agli investimenti finanziati dall’Europa che permettono di fare correre il Pil e di ridimensionare percentualmente quel debito monstre sono legati a quella nuova governance e a quelle riforme inserite all’interno del Piano e prontamente attuate
Se gli altri crescono e noi no. Se gli altri riducono il debito e noi no. Se gli altri hanno una risposta sul mercato del lavoro e noi no. Se tutto ciò succede non oggi, ma fra tre anni, allora come la mettiamo? Allora il problema italiano torna amplificato, e siccome veniamo da venti anni di crescita zero e siamo il grande malato d’Europa, l’Italia rischia di diventare se non altro per le sue dimensioni la polveriera del mondo. Questi sono i termini reali della questione italiana di cui nessuno parla.
Assistiamo al paradosso di un Draghi che per la sua credibilità personale porta l’Italia al centro della discussione geopolitica mondiale ma nel dibattito interno e nei comportamenti dei soggetti politici italiani nulla cambia. Per cui quel capitale di immagine, fatto di sostanza dimostrata, rischia di non essere sufficiente per porre le basi di un cambiamento strutturale che duri nel tempo. Per cui invece di fare rialzare la testa all’Italia come tutti credono nel mondo può accadere viceversa che il capitale di immagine si rovini perché non ci sono risultati interni. Questo l’Italia non se lo può permettere e, purtroppo, non traspare su questo punto la consapevolezza necessaria.
Se perdiamo questo intervallo di opportunità storica allora i bisogni di un Paese a lungo viziato e oggi stremato esprimeranno una domanda di cambiamento che richiede un tempo molto più lungo di quello dato a Draghi anche nella migliore delle ipotesi. Torniamo a essere un Paese che non ha una politica di lungo termine e paga il conto di non essersi piegato a una visione di insieme e a comportamenti coerenti con questa visione neppure con un presidente del Consiglio che ha idee chiare, fa scelte nette e si esprime con un linguaggio diretto per cui non si può non capire.
Si può fare finta di non capire perché si vuole che tutto resti come prima. Per cui la discussione politica italiana non è quella della riforma della macchina pubblica per gli investimenti o di una frammentazione decisionale che paralizza la nostra sanità e frena la ripresa della scuola in presenza, ma sulle riaperture all’aperto o all’interno dei ristoranti, sul coprifuoco alle 22, alle 23, alle 24, se tornare o no tutti insieme appassionatamente sulla spiaggia.
Una volta c’era il centralismo democratico, quello che piaceva a Togliatti ma tutto sommato anche a De Gasperi, che vuol dire: prima dissenti e discuti, poi se si adotta una decisione mantieni la linea. Invece oggi i partiti sono entrati in coalizione di governo così come erano entrati in precedenti esperienze politiche. Sono lì per massimizzare il loro successo dimostrando con questo atteggiamento di vivere su Marte perché sulla terra non ci può essere successo se si è seduti su un cumulo esplosivo di macerie.
Dopo la nomina del nuovo governo di unità nazionale il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, è stato audito in Parlamento e ha detto: se c’è qualcosa di sicuro è che Draghi non ha la bacchetta magica come non la ha nessuno e che ci vuole molto olio di gomito di tutti. Diciamo che ci vogliono l’ottimismo della volontà delle donne e degli uomini della politica e la consapevolezza comune che disincagliare il Titanic Italia è un’impresa incompatibile con la propaganda.
Serve l’esatto opposto dello scenario di improvvisazione e di doppio gioco permanenti per cui esistono i partiti di governo e di opposizione e i capi delle Regioni che chiedono e ottengono più volte centinaia di milioni per sanificare i bus ma quando si accorgono che Draghi fa sul serio e vuole riaprire le scuole sanno solo dire “non vorrete mica chiedere a noi di occuparci di trasporto pubblico locale”.
La prima riforma trasversale di cui ha bisogno vitale il Paese riguarda il dibattito logorante tra il centralismo e il decentramento amministrativo, tra Stato e Regioni, e a valle il rapporto tra Parlamento e Governo. Siamo ritornati con la crisi pandemica e il nuovo ’29 mondiale a molti decenni fa ma allora questi temi non si ponevano. Quando arrivarono i soldi del piano Marshall e c’era la Cassa del Mezzogiorno questo problema al politico era molto presente, ma era un altro mondo perché era un mondo molto centralizzato. Era tutto molto in mano a persone piuttosto competenti che potevano fare sbagli anche loro, anche grandi, ma nel complesso erano in grado di gestire, avevano un disegno e gli strumenti. Sapevano quali erano gli obiettivi, potevano perseguirli senza troppi intralci.
È evidente che oggi c’è bisogno di qualcuno che controlli perché senza i controlli ci sarebbero cose terribili, ma se il controllo è quello formale di oggi la risposta sarà di non fare niente e se poi ci deve essere controllo sulla spartizione politica che non si vuole fermare neppure davanti a Draghi allora poi la magistratura farà il resto. Si ripeterà il solito copione e sarà la fine. O la politica capisce e fa uno sforzo comune o facciamola finita.
Non scherziamo per piacere sulla commissione unica presso Palazzo Chigi e sulla governance del Recovery Plan italiano. Si possono impacchettare i progetti più belli del mondo, ma senza una governance che consente di tagliare i tempi autorizzativi e conferisce poteri di richiamo allo Stato sulle stazioni appaltanti, e senza le riforme della pubblica amministrazione e della giustizia civile nessuno potrà garantire che i 500 miliardi di debito pubblico da qui al 2026 che ci siamo caricati sulle spalle si rivelino debito buono.
Perché la quota di crescita sana legata agli investimenti finanziati dall’Europa che permettono di fare correre il Pil e di ridimensionare percentualmente quel debito monstre sono legati a quella nuova governance e a quelle riforme inserite all’interno del Piano e prontamente attuate. Altrimenti le risorse vengono tagliate o addirittura spariscono del tutto. Così come per ora basta l’impegno, ma poi la legge annuale della concorrenza e una riforma fiscale organica dovranno esserci. Altrimenti il rubinetto torna a fermarsi.
Nei prossimi dieci giorni si gioca tra Consiglio dei ministri, Parlamento, dialogo con le forze sociali e allineamento delle Regioni, la partita del futuro del Paese. Non sono ammessi i soliti giochi pericolosi dei soliti noti della politica italiana. Non sprechiamo la carta Draghi. Se non altro perché non ce ne sarà un’altra.
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