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Matteo Renzi

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Matteo Renzi ha posto sul tavolo le cose giuste nel solito modo fluviale. Che è lo stesso che gli fece perdere il referendum sul titolo quinto. Ha detto: partiamo dal programma, partiamo dagli investimenti pubblici, dal lavoro non dal nuovo assistenzialismo, dai soldi che ci servono per mettere a posto la scuola e la sanità, e parlando parlando ha costretto i Cinque stelle a misurarsi con la realtà.

Diciamo, insomma, che Italia vogliamo e soprattutto operiamo per realizzarla.

Se per una volta chi ha rispetto per questo Paese lo prendesse in considerazione nonostante lui, facesse finta che Renzi è il nuovo Ugo La Malfa, se per una volta l’insopportabile talk show italiano decidesse di documentarsi (cosa che non fa quasi mai) e di affrontare quei temi alla tedesca in una pubblica agorà per vedere chi dice che cosa, scoprirebbe che il programma di Renzi è lo stesso di quello esposto da Zingaretti e che è quello che serve al Paese.

Questo punto di merito, al netto dei fumi sudamericani del talk show italiano a reti unificate, è lo spartiacque tra un Paese che prova a salvarsi e a mettersi nelle condizioni di onorare i suoi debiti e un Paese che viene rilevato a prezzi di saldo dai finanziatori del debito comune europeo che collocano tedeschi e francesi alla testa dei nostri creditori.

In questo momento la partita da giocare e vincere non è più solo quella di salvare la faccia con l’Europa e con i partner internazionali e, tanto meno, chi piglia questo o chi piglia quest’altro. La partita dell’Italia è quella di un governo che, ancora prima di dare le giuste garanzie all’esterno ai nostri creditori, sia in grado di dare queste stesse garanzie all’interno, dimostrando di capire che cosa è un nuovo piano Marshall e, soprattutto, di saperlo attuare ponendo al centro la riunificazione sociale e infrastrutturale delle due Italie e evitando che l’emergenza lavoro diventi prima un tema doloroso di nuove povertà poi un gigantesco problema di ordine pubblico.

Non è stato, forse, un caso che a sottolinearlo sia stata proprio la ministra dell’agricoltura dimissionaria Bellanova che viene da una lunga storia nel sindacato. Ci sarebbe piaciuto che prima di lei lo avesse fatto da mattina a sera Landini pensando al lavoro nuovo da creare, non a quello vecchio da tenere artatamente in vita. Un redivivo Di Vittorio lo avrebbe fatto.

Siamo passati invece dalle seconde e terze file della politica addirittura alle seconde file del familismo da letto. Per questo chiediamo di non ripetere oggi l’errore commesso con il referendum sul titolo quinto. Documentiamo alle pagine II e III, a firma di Ercole Incalza, che nessun Recovery Plan è possibile fare in Italia senza sottoscrivere prima dei veri e propri rogiti con le singole Regioni perché questo è il pasticcio che abbiamo combinato.

Ci sono ben cinque raccomandazioni della Commissione europea che indicano con chiarezza che il fondo perduto del Next Generation Eu deve essere investito in conto capitale per attuare la convergenza tra Nord e Sud del Paese, ma pur avendone tutti i poteri costituzionali le Regioni del Mezzogiorno non impugnano provvedimenti che li escludono brutalmente e consentono alle Regioni del Nord di ipotecare addirittura anche 45 dei 70 miliardi dei fondi di coesione attraverso le solite manovre della Conferenza Stato-Regioni. Bisogna che il Capo del partito “trasversale” Pd-Lega del Nord Bonaccini se ne faccia una ragione: può anche dire che il bacino padano viene prima di quello di Taranto, ma non ha alcun potere per deciderlo la Conferenza Stato-Regioni di cui è pro tempore presidente.

Si riprenda piuttosto tutti a parlare bene e in fretta delle cose da fare perché c’è uno spazio immenso di lavoro comune tra Conte e l’area Cinque Stelle, da una parte, e Pd, Italia Viva e Leu dall’altra per fare presto e bene. C’è uno spazio immenso di ulteriore lavoro comune perché tutte le componenti non sovraniste presenti in Parlamento contribuiscano a delineare e realizzare insieme un progetto organico che preservi all’Italia un posto tra i Grandi del mondo nei giorni terribili della Pandemia globale e del nuovo ’29 mondiale.

C’è uno spazio immenso di ulteriore lavoro comune per fare una squadra di governo all’altezza della situazione e per chiamare a raccolta il meglio delle competenze fuori e in casa da mettere al servizio dell’amministrazione italiana liberata dal peso delle burocrazie regionali e delle lobby. Sono queste le sfide capitali di un’Italia che voglia essere europeista non a parole. Sono queste le sfide capitali che l’intera classe dirigente italiana deve sapere affrontare.

Bisogna dimostrare di essere all’altezza dei De Gasperi, dei Di Vittorio, dei Pescatore, dei Menichella, dei Saraceno, dei Vanoni e dei Pastore. Non c’è posto per i rendiconti al secondo su chi ha vinto e su chi ha perso. Perché ė in gioco la sopravvivenza dell’Italia e il recupero della sua sovranità perduta.


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