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Ministeri, Regioni del nord e del sud, destra e sinistra, ognuno ha fatto il suo. Nella prima bozza c’è il Paese che ha la sua economia sotto ricatto dei boss regionali e delle più ottuse burocrazie centrali e locali. Ecco perché senza semplificare le amministrazioni e senza ripensare il sistema di governo questa architettura del Paese non tiene e impedisce la messa a terra entro il 2026 dei progetti si spera più possibili riconvertiti dagli incentivi agli investimenti, dal Nord al Sud

NON C’E’ più l’Italia, è difficile che ci possa essere un Recovery Plan italiano. Siccome questa è l’ultima occasione per salvare il Paese si osa sperare che questa regia finale dell’Economia riesca per una volta a superare il “malgoverno delle larghe intese” che ha fin qui dominato la scena. Non sarà facile. Perché veramente tutti hanno fatto il loro affinché l’occasione della storia sia sprecata in un mare di micro incentivi a aziende decotte molto prima del Coronavirus o di micro marchette, fate voi, tipo “turismo lento”, “recupero delle abbazie e dei luoghi di culto”, incompiute trentennali dei notabilati regionali del Nord, progetti di sponda storici degli sceriffi del Sud e progetti di spesa corrente per l’assunzione di questo o quello all’istruzione o dove meglio aggrada. Ministeri, Regioni del Nord e del Sud, destra e sinistra, ognuno ha fatto il suo.

Il Paese che ha la sua economia sotto ricatto dei boss regionali (c’è l’opera nel mio territorio? No, allora ti blocco) e delle più ottuse burocrazie centrali e locali da almeno vent’anni, si rivela in tutto il suo disarmante splendore nella prima bozza di Recovery Plan che si sta provando a rimettere in sesto. Si percepisce a occhio nudo l’errore di base che è la mancanza di una visione strategica che eviti di confondere il conto/capitale con il solito vizio della redistribuzione a favore dei ricchi, foraggiati con incentivi e bonus di ogni genere e tipo.

È mancata una dichiarazione politica pubblica di coerenza meridionalista del progetto italiano fatto di investimenti pubblici, non di incentivi, capace di ricucire le due Italie nella spesa sociale (scuola, sanità, mobilità) e infrastrutturale (banda larga ultra veloce, porti, treni veloci, ponte sullo Stretto) attraverso il fondo perduto europeo. Perché così vuole chi ha concepito il programma di investimenti per la prima volta finanziato con debito comune europeo e prima ancora perché questo serve all’Italia intera per riemergere dalla palude sociale e finanziaria nella quale è stata confinata dal federalismo della irresponsabilità e dallo svuotamento delle istituzioni nazionali.

Questa è la realtà e aggiungere alle 153 pagine (dicasi 153) di schede progetto della prima bozza le altre 60 e passa di Italia Viva di Renzi che è passato dallo “stai sereno” a “ciao” la dice lunga sul livello di degrado in cui è precipitata la politica italiana. Per arrivare a fare in modo che sui 25 miliardi di progetto Ferrovie poco più della metà andasse al Mezzogiorno c’è voluta una “nota politica” del Ministero dell’Economia quasi che non fosse visibile a occhio nudo che c’è un treno veloce ogni venti minuti da Milano a Torino e nemmeno uno all’anno da Salerno a Reggio Calabria o che colleghi Palermo-Catania-Messina.

Che cosa ci vuole a capire che su scuola, ricerca, sanità, giovani, donne, la priorità territoriale e di genere va data al Mezzogiorno perché se non si riduce il divario interno l’intera economia italiana esce dal novero dei grandi Paesi industrializzati? Capiamoci una volta per tutte. Potete anche imbottire il piano di incentivi su misura di questa o quella piccola impresa fuori mercato facendo oggi peggio di quello che fece la Gepi, di questa o quella clientela, ma non avrete il becco di un euro. Industria 4.0 vale per il conto/capitale perché finanzia lo sviluppo di una rete produttiva, ma di certo non si possono mascherare come investimenti le redivive marchette fatte dal ramo equity di Cdp con troppe imprese del Centro-Nord.

Tutte ricapitalizzate a spese del risparmio postale per perdere poi più di prima. No, questo tipo di giochetti e altri simili, con il Next Generation Eu non si possono più fare. Così come non se ne può proprio più di queste continue lezioni a tutti da chi gestisce la Regione Lombardia costringendo i lombardi ad andare a comprare i vaccini antinfluenzali in Svizzera e coprendosi di ignominia con la distribuzione anche di quelli contro il Covid 19. Il re di un regionalismo che premia la fedeltà sulle competenze è nudo in Lombardia come in Veneto e in Emilia-Romagna dove strabilianti e indebiti finanziamenti pubblici ventennali hanno posto le basi del disastro competitivo italiano di oggi.

Purtroppo, siamo ancora lì. Siamo al daltonismo costituzionale per cui cambiano i colori e i presidenti delle Regioni diventano governatori e si comportano da Capi di Stato ombra e il Presidente del Consiglio che è un primus inter pares che svolge una funzione di coordinamento tra i ministri diventa capo del governo e fa lui decreti e governa senza avere alle spalle strutture adeguate. Anzi, più consolidi queste strutture dentro la presidenza del consiglio e più vai a cozzare con le amministrazioni centrali e regionali. Siamo al guazzabuglio totale. Senza semplificare le amministrazioni e senza ripensare il sistema di governo questa architettura del Paese non tiene e impedisce la messa a terra entro il 2026 dei progetti si spera più possibili riconvertiti dagli incentivi agli investimenti, dal Nord al Sud.

Bisogna tornare alla programmazione dell’età dell’oro di questo Paese e a una macchina esecutiva centrale capace di coinvolgere Ministeri e Regioni per gestire unitariamente i nuovi fondi europei con quelli di coesione e con quelli infrastrutturali inseriti nella legge di stabilità. Altrimenti i progetti di sviluppo, ammesso e non concesso che siano migliorati e quindi finanziabili, finirebbero comunque sul binario morto di voci di spesa lentissime. Incompatibili con la realizzazione triennale delle singole opere e sganciate da una integrazione organica degli interventi.

Condizioni entrambe indispensabili non per spendere bene i fondi ricevuti, ma semplicemente per potervi accedervi dopo averli anticipati a spese proprie.


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