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Il nocciolo del nostro modello di Stato sociale è scritto nell’articolo 38 della Costituzione dove si distinguono i concetti a cui devono attenersi i c.d. diritti sociali


Nella definizione di Stato sociale (Welfare state) sono ricompresi sia una mission di ordine politico che una comunità/nazione si assume nei confronti dei cittadini (e per certi ambiti anche degli stranieri residenti), sia il complesso delle istituzioni politiche e amministrative preposte all’impiego delle risorse stanziate allo scopo di garantire quella condizione di benessere promessa ai cittadini; sia, infine, i servizi, gli apparati e le prestazioni attraverso le quali tali obiettivi si realizzano. Il riconoscimento di diritti sociali completa, in uno Stato moderno, il presupposto di una cittadinanza piena. Ma, a differenza dei diritti politici e civili, i diritti sociali sono in larga misura commisurati alle risorse disponibili e alla loro redistribuzione.

Senza addentrarci in complesse ricostruzioni storiche e nella descrizione sommaria di una modellistica giustapposta per esigenze astratte di classificazione a processi reali determinate da esigenze pratiche di fornire risposte ai problemi creati nelle struttura della società industriali, potremmo dire che lo Stato sociale – pur con le differenze caratteristiche delle esperienze che ne hanno definito i profili nei diversi paesi – è un punto di incontro e di sintesi tra due esigenze maturate in determinate fasi storiche: la lotta alla povertà e all’emarginazione, da un lato; le crescenti esperienze di autotutela collettiva connesse all’azione delle organizzazioni delle classi lavoratrici.

LA LOTTA ALLA POVERTA’ E L’ORGANIZZAZIONE DELLE CLASSI LAVORATRICI

Nel primo caso è lo Stato a rendersi protagonista attraverso la legislazione. Nel secondo sono i grandi soggetti collettivi a praticare la contrattazione e ad avvalersi, per fornire forme di tutela contro i rischi connessi allo svolgimento di una attività lavorativa – degli strumenti della contrattazione e riconvertendo alle loro esigenze le antiche esperienze assicurative e solidaristiche. Poi, in vari modi e in diverse circostanze, lo Stato si assume in proprio – a prescindere dalla loro origine – l’intero pacchetto della protezione sociale. Onde garantire una obbligatorietà giudicata necessaria per essere efficace e sicura. E soprattutto di carattere generale.
Si è passati così dalla fase delle assicurazioni sociali a quella della sicurezza sociale. Senza estromettere l’iniziativa privata che non solo è libera come ogni altra attività economica, ma che è controllata e coordinata a quella pubblica. In nome dell’interesse generale e della natura dei diritti tutelati.

DIRITTI SOCIALI, I LIMITI DELL’INTERVENTO PUBBLICO

Persino colui che è considerato il fondatore del moderno welfare state, Sir William Beveridge, era consapevole dei limiti dell’intervento pubblico. Nonostante la meticolosità con cui nel 1942 aveva presentato al Parlamento il noto piano sul riordino del sistema di sicurezza sociale britannico. Piano passato alla storia appunto col suo nome e destinato a influenzare la legislazione sociale dei governi laburisti del 1945-1951. Scriveva, infatti, il ministro liberale: “Il benessere collettivo deve essere raggiunto attraverso una stretta cooperazione fra lo Stato e l’individuo. Lo Stato deve offrire protezione in cambio di servizi e contribuzioni. E nell’organizzare tale protezione lo Stato non deve soffocare né le ambizioni né le occasioni né le responsabilità. Stabilendo pertanto un minimo di attività nazionale non deve però paralizzare le iniziative che portano l’individuo a provvedere più di quel dato minimo per se stesso e la sua famiglia”.

I COMPITI DEL MODERNO STATO SOCIALE

Con riferimento al modello Beveridge prese forma, nel secondo dopoguerra, un’idea di Stato sociale più ampia del concetto di sicurezza sociale. Che si alimentava dell’afflato democratico connaturato alle Costituzioni dei più importanti Paesi e alla filosofia degli organismi internazionali. Tra i compiti del moderno Stato sociale non venne inclusa soltanto la garanzia della sicurezza del singolo. Realizzata con misure di tutela del reddito in caso di vecchiaia, invalidità, malattia, infortunio o disoccupazione.

Sono tipici dello Stato sociale – come scrisse Gerhard A. Ritter – anche i provvedimenti volti a eguagliare le diverse possibilità iniziali del singolo con l’istruzione e la formazione, la redistribuzione del reddito da parte del sistema fiscale, nonché la regolamentazione del mercato del lavoro, enfatizzando l’autotutela collettiva e i diritti di associazione e di sciopero. Inizia così il lungo cammino del welfare moderno. Al cui interno è agevole scorgere, comunque, traccia delle tante componenti socio-culturali che hanno contribuito, nel tempo, a formare il mosaico. Il dna è complesso e si caratterizza fin dalle origini (troveremo la presenza di queste “convergenze parallele” lungo tutto il percorso) per un filone “interventista” (da parte dello Stato) e un filone di “autotutela” da parte di gruppi sociali (inizialmente con un’impronta elitaria ma con una tendenza ad allargarsi, verso una prospettiva di carattere generale).

DIRITTI SOCIALI, IL CASO ITALIANO

Venendo al caso italiano, considerando il periodo che parte dal secondo dopoguerra, gli studiosi in generale hanno evitato di imprigionare l’ordinamento in uno dei modelli dei “massimi sistemi”. L’evoluzione del welfare all’italiana è quanto mai pragmatica. Talvolta asistemica (Maurizio Cinelli), fino al limite di una essenziale ambiguità (Mattia Persiani). Tanto da ritenere che il suo impianto non sia il frutto di un progetto meditato, quanto piuttosto l’esito di una casuale sedimentazione sollecitata sovente da vicende contingenti. Al fine di soddisfare microinteressi corporativi, attraverso un eccesso di legislazione stratificata e alluvionale (Gino Giugni). Così proprio a quell’eccesso va addebitata la progressiva perdita di controllo sugli effetti redistributivi impliciti nell’operare del sistema con le note conseguenze sulla finanza pubblica (Luigi Spaventa).
Il nocciolo del nostro modello di Stato sociale è scritto nell’articolo 38 della Costituzione. Dove si distinguono i concetti di cittadino e di lavoratore, di assistenza e di previdenza a conferma del carattere di compatibilità e sostenibilità economica a cui devono attenersi i c.d. diritti sociali.

Lavoro

In proposito, le idee dei “padri costituenti” erano e rimangono chiare e distinte. Nell’articolo 38 è sancito, innanzi tutto, il diritto di ogni cittadino inabile al lavoro, sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, al mantenimento e all’assistenza sociale (comma 1); mentre è assicurato (comma 2) ai lavoratori il diritto – in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria – a mezzi adeguati alle loro esigenze di vita; è garantito agli inabili e ai minorati il diritto all’educazione e all’avviamento professionale (comma 3); infine, sebbene sia prevista (comma 5) un’esplicita garanzia di libertà per l’assistenza privata (come per ogni altra attività economica), viene attribuito a organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato la funzione di provvedere ai compiti previsti nell’articolo (comma 4). Non si può certo affermare che l’articolo 38 delinei un assetto particolarmente moderno e innovativo, ma almeno è esplicito nella sua impostazione generale.
La qualificazione dei mezzi chiamati a realizzare gli obiettivi di tutela ne evidenzia sia la differenza che l’intensità. La fonte dei diritti sociali è il lavoro ai cui rischi va assicurata una protezione adeguata. Mentre a quanti – per diversi motivi – non sono autonomi lo Stato è tenuto a garantire, in una logica di inclusione sociale, un pacchetto di mezzi necessari. È evidente che in questa distinzione vi sia anche una diversa componente economica.

Sanità pubblica

Quanto alla sanità, l’articolo 32 della Costituzione definisce ‘’fondamentale’’ (unico caso in tutti gli articoli) il diritto alla salute e garantisce le cure agli indigenti. Anche in questo caso esiste un dualismo delle origini: le istituzioni religiose e civili creano le prime strutture ospedaliere di accoglienza dei poveri, inabili e malati. Poi si affiancano a queste strutture sempre meno fatiscenti, le società di mutuo soccorso, distinte per platee, in seguito ‘’nazionalizzate’’ dallo Stato.
La struttura delle c.d. mutue è ancora l’asse portante della sanità pubblica in numerosi paesi. In Italia, benché garantissero l’assistenza sanitaria al 97% della popolazione, furono abolite nel 1978 (legge n. 833) dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che assicurava in via transitoria (poi divenuta quasi permanente) il modello di prestazioni dell’INAM e garantiva alle Regioni divenute – ciascuna nel suo ambito – titolari del Servizio il mantenimento del livello di spesa storica vigente al momento del cambiamento organizzativo.
Queste caratteristiche hanno finito per dare corso a tanti modelli di sanità e a rendere difficilmente praticabile l’istituzione del c.d. Lep (livelli essenziali di prestazioni). I limiti del Servizio pubblico hanno aperto spazi considerevoli alla sanità privata i cui costi sono of out pocket delle famiglie.

Sanità privata

Negli ultimi anni la sanità privata è divenuta la più importante componente del c.d. welfare aziendale. Tuttavia, la diffusione del welfare contrattuale/aziendale ricalca gli squilibri economici, sociali e territoriali che da decenni caratterizzano il sistema produttivo e il mercato del lavoro italiano. In primo luogo, emerge la forte concentrazione territoriale di questo modello contrattuale. Quattro regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte) rappresentano il 67% degli accordi depositati; le regioni centrali coprono dal 15 al 20% mentre una quota residuale va al Sud, peraltro rappresentata soprattutto da accordi di gruppi nazionali con impianti produttivi in tali regioni. L’altro limite riguarda il fatto che la spesa privata – per tanti motivi – è rivolta ad acquistare prestazioni fornite dal SSN: diventa così una spesa ripetitiva che richiederebbe una ridefinizione dei confini tra ciò che deve garantire il SSN e ciò che può essere affidato all’iniziativa privata, individuale e collettiva.


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Maria Assunta Castellano

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