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Ezio Vanoni

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Al contrario del suo capo si schiera da subito con il partito della “Cassa” per il Mezzogiorno guidato da Menichella. Ha legato il suo nome a quello Schema Vanoni che mette al centro il riequilibrio tra Nord e Sud, un’idea sana di sviluppo e l’equità fiscale. Oggi abbiamo bisogno della stessa serietà in casa e della stessa visione nelle scelte politiche in Europa

«Meridionale io sentivo che i miei conterranei, sempre delusi per la mancata attuazione delle promesse che erano state loro fatte, avrebbero particolarmente apprezzato la novità che si presentava con un nome Cassa il quale attestava da solo che questa volta c’erano i “denari”. De Gasperi, che si rendeva conto dello sforzo che nelle condizioni di allora lo Stato si apprestava a compiere, ebbe la preoccupazione che il nome attirasse troppe “cupidigie” e incaricò Vanoni, poiché aveva studiato con me il progetto, di trovarne uno meno sonante. Gli disubbidimmo».

Queste parole sono di Donato Menichella, il mitico governatore della Banca d’Italia che ha portato la lira a vincere l’oscar mondiale delle monete. Partito da Biccari in provincia di Foggia con un diploma di ragioniere. Una laurea in Scienze sociali a Firenze dividendo il letto in due con il fratello («uno a capo e uno a piede») perché si potevano permettere di pagare una sola retta al collegio non due. Queste parole Menichella le ha pronunciate per ricordare la figura di Alcide De Gasperi nell’agosto del 1964 e sono pubblicate sulla rivista Concretezza.

Il motivo per cui ho voluto riprodurre qui questo passaggio, però, non riguarda né De Gasperi, né Menichella. Mi interessa segnalare il ruolo del valtellinese Ezio Vanoni, da Morbegno in provincia di Sondrio, primogenito di quattro figli con padre segretario comunale e madre maestra. Disubbidisce al suo capo politico trentino che persegue la coerenza meridionalista ma non conosce i meridionali e, quindi, non vuole un nome di bottega (Cassa, appunto) per il nuovo ente di sviluppo. Questo signore di buona famiglia lombarda viceversa si schiera fin dal battesimo con il partito della “Cassa” per il Mezzogiorno guidato dal “meridionale delle Puglie”, Menichella. Appartiene di diritto alla prima linea degli uomini che posero le basi del miracolo economico italiano e videro in quella Cassa di trecento ingegneri l’agenzia “americana” che apriva e chiudeva i cantieri, faceva le opere. Grande ministro delle Finanze e poi del Bilancio nei governi De Gasperi e Fanfani, democristiano e accademico ha legato il suo nome a quello Schema Vanoni che mette al centro della rinascita del Paese, nel decennio 1955/1964, il riequilibrio tra Nord e Sud e il massimo dell’attenzione ai poveri e agli umili, un’idea sana di sviluppo, di equità fiscale e di risanamento del bilancio. Vanoni, come il cognato Pasquale Saraceno, anche lui mezzo valtellinese, è dal primo momento schierato per la Cassa per il Mezzogiorno.

Comprendono entrambi al volo la forza della proposta di Menichella perché c’è un comune sentire che più volte negli anni a venire li porterà a sbottare: «ma deve essere proprio motivo di scandalo il fatto che nel Mezzogiorno in qualche area più povera si creano fonti di reddito costruendo anche qualche opera rinviabile quando nel Nord si ammette, ed è giusto, che la cassa integrazione fornisca reddito a chi non può lavorare?».

Sono i due “angeli” del Nord di un Sud che vuole rialzare la testa e lo testimoniano con la forza dei comportamenti e la capacità di rompere in pubblico posizioni di comodo e luoghi comuni. Qui, però, oggi ci occupiamo di Ezio Vanoni e della doppia straordinaria attualità della sua opera come strenuo combattente dell’evasione fiscale e lucido ideatore di un programma di crescita di medio termine fatto di opere pubbliche e molto altro con l’obiettivo dichiarato di riunificare le due Italie. Vale la pena di ricordarlo.


«Onorevoli senatori, il fenomeno dell’evasione fiscale oggi si verifica su scala preoccupante e compromette una equa distribuzione dei carichi tributari. In una simile situazione la pressione tributaria diviene vessatoria e veramente insopportabile per gli onesti e per le categorie di contribuenti che non possono sfuggire all’esatta determinazione dell’imposta per motivi tecnici. L’evasione, specie rispetto a taluni tributi sulla produzione e sugli affari, assume i caratteri di uno strumento di concorrenza sleale, così da compromettere i normali rapporti economici e di spingere sulla strada della frode fiscale una schiera sempre più numerosa di contribuenti». Ezio Vanoni, ministro delle Finanze, seduta del 26 luglio del 1949, presentazione del disegno di legge «Norme sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario». Parole come pietre di quest’uomo della Valtellina che vuole la Cassa per il Mezzogiorno, predispone la riforma doganale e tributaria, concorre a istituire l’Eni, concepisce lo “Schema decennale di sviluppo” che porta il suo nome, si propone e realizza tassi di crescita oggi inimmaginabili. Sotto il segno di Vanoni si racchiudono l’alfa e l’omega di quella politica economica del centrismo degasperiano e post-degasperiano che ha ricostruito l’Italia in pochi anni trasformando un’economia agricola di secondo livello in una grande economia industriale. Pochi attimi prima, nella stessa seduta, il ministro delle Finanze che studia e incorpora il rigore metodologico tedesco, chiarisce perché l’evasione fiscale si verifica su scala preoccupante: «L’inflazione monetaria cui abbiamo assistito in questi ultimi anni, gli sconvolgimenti economici che hanno seguìto alla guerra, un certo declassamento della moralità fiscale, aspetto particolare di un fenomeno più generale del perturbamento morale portato dalle guerre e dalle vicende politiche degli ultimi decenni, una legislazione spesso caotica e talvolta ispirata a finalità demagogiche irraggiungibili, hanno aggravato notevolmente il fenomeno dell’evasione fiscale».

In un periodo relativamente ristretto, Vanoni diminuisce più volte le aliquote e diffonde il senso di giustizia. Controlla la spesa senza rinunciare agli investimenti produttivi, e così risana il bilancio dello Stato dissestato dalla guerra e ricostruisce il Paese. Insegna agli italiani a fare la dichiarazione dei redditi e realizza l’unica, grande, effettiva operazione di emersione dell’economia in nero della storia italiana. Pensateci un attimo: in piena Pandemia globale e Grande Depressione economica con il suo straordinario carico di nuove diseguaglianze, per risolvere la questione fiscale di sempre che riguarda chi paga nulla e chi paga troppo, l’Italia avrebbe bisogno di un nuovo Ezio Vanoni. Avrebbe bisogno della sua tensione morale, della sua visione politica e delle sue capacità tecniche.


«Voglio ringraziarla per le parole di stima che ha espresso nei confronti di mio nonno Ezio Vanoni. Le scrivo sapendo di interpretare il pensiero di mia madre Marina, primogenita, che del ricordo privato e degli insegnamenti pubblici del padre ha coltivato la memoria trasmettendo a noi nipoti, nate e cresciute molto dopo la sua morte, il senso di appartenenza a un Paese che richiede la nostra responsabilità individuale ogni giorno. Leggo con un certo sconforto i brani da lei scelti dal discorso del ’49, per l’affinità con l’attualità naturalmente, ma al contempo anche per la profonda distanza tra ieri e oggi nell’uso del linguaggio. Mi colpisce la chiarezza espositiva, priva di demagogie e mistificazioni, parole “pesanti”, ma mai violente, nel rispetto del luogo dove furono pronunciate e di ciò che rappresentava. Uno scenario abissalmente lontano dalle discussioni in Aula di oggi. Mi spiace percepire ancora una volta la necessità da lei espressa, di rivolgersi al passato come fonte di ispirazione per il presente. Non credo che negli esempi di un tempo si trovino soluzioni alla “guerra” (immateriale in questo caso) che stiamo attraversando. È tutto troppo diverso. Possiamo solo cucinare con gli alimenti della stagione di oggi».


Questa lunga (e bella) lettera è firmata Cecilia Sica e fa riferimento alle parole pronunciate da suo nonno, il ministro delle Finanze Ezio Vanoni, nel luglio del ’49, al Senato della Repubblica, e da me rievocate nella rubrica memorandum sulla Domenica del Sole 24 Ore, che allora dirigevo, nel dicembre del 2012: «Il fenomeno dell’evasione fiscale si verifica su scala preoccupante… la pressione tributaria diviene vessatoria e veramente insopportabile per gli onesti…». Il nonno di Cecilia ha legato il suo nome alla riforma tributaria del dopoguerra e a quello Schema Vanoni che sbagliò le previsioni di crescita (per difetto non per eccesso) contribuendo a trasformare un Paese agricolo in una potenza economica. Ho voluto riprodurre ancora una volta la lettera di Cecilia perché ci dice che lei, grazie alla memoria trasmessa dalla madre, ha fatto suo «il senso di appartenenza a un Paese che richiede la nostra responsabilità individuale ogni giorno» ma allo stesso tempo ci dice «non credo che negli esempi di un tempo si trovino le soluzioni per la guerra immateriale che stiamo attraversando oggi». No, cara Cecilia, se la memoria del nonno è stata l’alimento della sua educazione, perché non sperare che lo possa essere anche per altri? Lo dissi allora, a maggior ragione lo ripeto oggi. È vero che è tutto cambiato, lo so bene, ma per rimuovere le nuove macerie con cui oggi siamo costretti a fare i conti servono la tempra e la visione di uomini come Vanoni e noi non ci stancheremo mai di ricordare che sono esistiti. Erano italiani.


Lo Schema Decennale di sviluppo del reddito e della occupazione della metà degli anni Cinquanta di Ezio Vanoni si pone tre obiettivi: pieno utilizzo della forza lavoro, riduzione del divario Nord-Sud, equilibrio della bilancia dei pagamenti. Punta a realizzarli con l’intervento diretto dello Stato in edilizia e in agricoltura, ma fa soprattutto leva sulla capacità dell’iniziativa privata per creare posti di lavoro duraturi e sulla capacità di cambiare il contesto per attrarre il più possibile capitali esteri. Senza una precisa volontà politica che lo faccia proprio fino in fondo la realtà dei fatti si incarica di attuarlo, tutte le previsioni di crescita risultano sbagliate per difetto, l’Italia mette a segno tassi di espansione del Pil con punte superiori al 6% annuo, e di questo valtellinese che fa il professore a Pavia rimane la forza di uno “Schema del buon senso” sopravvissuto alla sua scomparsa e capace di tutelarlo da improvvidi giudizi liquidatori che lo definivano tout court come un piano statalista. Alla prova dei fatti ne viene fuori un “prodotto di orlo” che unisce al posto di dividere. Che mette insieme culture e storie diverse e trova sempre il consenso in momenti differenti, dall’ideazione alla “messa in opera” mai esplicita, di uomini del calibro di Einaudi, De Gasperi, Fanfani, Saraceno, l’appoggio dei sindacati e la non ostilità della parte più avvertita del mondo delle imprese. Tutto avviene in una tensione ideale e in una capacità operativa che sono cervello e motore del miracolo economico italiano e, in un certo senso, anticipano lo spirito e la visione della Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa e, molto dopo, della politica dei redditi di Ciampi che fece uscire il Paese dall’incubo della grande crisi italiana del ’92. L’orientamento produttivistico di Vanoni, tanto caro a Einaudi, sa convivere con il disegno ingegneristico-programmatorio di Saraceno e cumula i tratti costitutivi del centrismo degasperiano con le istanze politico-sociali del primo centrosinistra di impronta fanfaniana. C’è un lungo passaggio di un ragionamento di Ezio Vanoni con i suoi colleghi professori, che merita di essere riprodotto integralmente: «Non dobbiamo dimenticare, quando parliamo di programmazione, che, dal punto di vista dell’azione pubblica, la prima programmazione è fatta ogni anno attraverso il Bilancio dello Stato, il quale è il primo programma, quello che – inconsciamente dal punto di vista della teoria dei piani, ma consapevolmente dal punto di vista della politica concreta – facevano già da tanti anni i nostri avi e che ci hanno insegnato a fare. Noi ci sforziamo ora di fare bilanci se è possibile più chiari, più armonicamente concepiti e più dialetticamente spiegati, tendendo a distinguere con sempre maggiore evidenza le spese di conservazione dell’apparato statale dalle spese di stimolo di tutta la struttura economica e sociale del Paese. Ma, evidentemente, dovendo chiamare a raccolta nello sviluppo della nostra economia, anche e soprattutto energie che stanno al di fuori dell’azione immediata dello Stato, rappresentare il programma nel Bilancio non è così semplice. E vorrei anche dire che, se insistessi molto sul Bilancio come strumento principale di realizzazione del nostro Programma di sviluppo, creerei molti allarmi in alcuni settori della pubblica opinione (non certamente tra di voi) poiché si potrebbe facilmente immaginare che tutto il Programma sia inteso come una responsabilità dello Stato, come azione diretta dello Stato».

Come è attuale la lezione priva di ideologie di questo riformista moderato! Quanto è anticipatrice sulla necessità di creare condizioni di competitività dentro un quadro sociale e liberale che ponga stabilmente al centro i valori di una moderna democrazia industriale! Dietro le parole di quest’uomo modesto («Non siamo degli eroi… noi abbiamo creduto di servire l’Italia con la nostra azione») e del suo straordinario “Schema decennale” ci sono la cifra politica, tecnica, umana di cui hanno ancora bisogno oggi l’Italia e la vecchia, cara Europa, in un mondo globalizzato che si è fermato (causa Pandemia) e che non ha nulla a che vedere con quello degli anni di Vanoni e Saraceno, di De Gasperi prima e di Fanfani dopo. Abbiamo bisogno della stessa serietà in casa e della stessa visione e lungimiranza politiche in Europa. Paradossalmente scarseggia la prima e abbondano le seconde.


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Fabio Grandinetti

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