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Donato Menichella

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Uno spirito di missione così spiccato da arrivare a ridursi lo stipendio da governatore onorario e a rifiutare tutto: i Lincei, la nomina a senatore a vita, perfino le interviste. Con lui la lira vinse l’oscar mondiale. Al primo posto ci furono sempre lo sviluppo dell’economia e il riequilibrio territoriale 

“Presidente, dia retta a me che conosco i miei polli. Agli enti non ci credono più, ne hanno avuti già troppi e hanno visto come sono finiti. Cassa è nuovo, eppoi è concreto. È un oggetto che si vede, che si tocca e che a scuoterlo risuona di denari…” Con queste parole il governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella, si rivolge al Capo del governo Alcide De Gasperi a metà febbraio del 1950, nel suo ufficio al primo piano del palazzo del Viminale. Lo fa con il trasporto del “meridionale delle Puglie” che conosce uomini e cose delle sue terre e disdegna la retorica, ma che è consapevole di parlare a un politico di professione democristiano che prima di tutto ciò è un italiano mezzo trentino mezzo asburgico.

Menichella vuole convincere De Gasperi che “i suoi polli” all’ennesimo ente di sviluppo per il Mezzogiorno non ci avrebbero mai creduto. Vuole fargli capire che il nome può apparire un particolare irrilevante, ma non è così. Perché lui è di Biccari, provincia di Foggia, è fatto a modo suo tanto da arrivare a ridursi lo stipendio da governatore onorario o a portare il cappotto rivoltato negli anni del miracolo economico italiano, ma conosce la sua gente e sa che cosa può coinvolgerla o no. Vuole evitare errori. De Gasperi storce il naso. Non perché non sia favorevole all’iniziativa (al contrario) ma solo perché “Cassa” gli sembra riduttivo. “Ha un suono da bottega” sintetizza. Alla fine a spuntarla è Menichella. Con lui, d’altro canto, si schierano subito il futuro ministro per il Mezzogiorno, Pietro Campilli, e lo scienziato napoletano Francesco Giordani, entrambi presenti all’incontro. De Gasperi, peraltro, sa che a tifare per la “Cassa” sono anche il grande Pasquale Saraceno e il potente ministro delle Finanze, Ezio Vanoni, entrambi invece assenti all’incontro. Ecco perché De Gasperi smette molto presto di storcere il naso. Le parole di Menichella e gli sguardi di Campilli e di Giordani finiscono con il persuaderlo. “Vada per la Cassa” taglia corto. Questo è il primo atto importante della “coerenza meridionalista” degasperiana e avviene sotto il segno di Menichella.


Era fatto a modo suo, “l’uomo delle Puglie”. Quando va in America con Gabriele Pescatore, presidente della Cassa che faceva le opere, per assicurare all’Italia i dollari della Banca Mondiale e raddoppiare il prestito Marshall, chiede e ottiene l’impegno di Pescatore di consumare un solo pranzo al giorno perché “caro Gabriele non è che poi passa per la testa di qualcuno che siamo venuti qui a fare bagordi e non a raccogliere dollari per gli italiani” e perché questi erano lo spirito, il carattere e lo stile di vita di “tecnici che hanno combattuto e vinto una rivoluzione nell’Italia delle macerie, dalla riforma agraria alle bonifiche, dalle strade all’acqua”.

Un metodo di vita e di lavoro improntato alla sobrietà e alla competenza ricercate e sostenute da una politica illuminata che furono quelle del centrismo di De Gasperi e del primo Centrosinistra di Fanfani, entrambi a guida democristiana. Una stagione in cui intelligenza tecnica, riformismo cattolico e cultura laica si intrecciano in modo naturale e producono il miracolo economico italiano quando il nostro Paese cresce a tassi da nazioni emergenti e l’unificazione infrastrutturale delle due Italie non erano parole o miraggi ma assoluta realtà. Perché quello spirito di missione che rivela un senso di appartenenza delle istituzioni si incardina in una scommessa condivisa e in una catena di valori che proseguirà nel tempo con Baffi, anche lui come Pescatore in modo ingiusto profondamente colpito da una cattiva giustizia, e alle loro spalle con gli Occhiuto, i Masera e altre poche persone che tutte con grande passione hanno sempre perseguito il bene pubblico e hanno a lungo rappresentato una riserva della Repubblica. Ci sono i Costa, i Sinigaglia, i Mattei in quella stagione del fare italiana. C’è il modello vincente dell’ufficio studi dell’Iri guidato dal siculo-valtellinese Pasquale Saraceno, imitato dagli americani e capace di sbaragliare la concorrenza francese nei grandi deal industriali, nei servizi e nelle infrastrutture con una squadretta di sei uomini prevalentemente ingegneri. C’è, soprattutto, il capitale prezioso di Donato Menichella che salva l’economia italiana dalla tolda di comando dell’Iri negli anni successivi alla crisi del ’29, lega il suo nome alla fondamentale legge bancaria del ’36 che diventerà la riforma Menichella, e arriva in Banca d’Italia nel ’46 per volontà di Luigi Einaudi prima come direttore generale e subito dopo come Governatore.


Ricordi sparsi regalatimi da un uomo speciale, Gabriele Pescatore, che mi hanno restituito i lati più nascosti di un servitore dello Stato pienamente consapevole che sviluppo e riequilibrio territoriale sono le fondamenta del palazzo su cui si regge la stabilità monetaria. Un uomo delle Puglie, un meridionalista del fare, un grande economista, un grande Governatore della Banca d’Italia: il “mitico” Donato Menichella che preserva la stabilità monetaria e la estende al cambio e agli assetti bancari ma prima ancora persegue con il massimo successo l’obiettivo dello sviluppo e avvia su basi solide il conseguimento del secondo obiettivo che è quello della riunificazione delle due Italie. Rende forte la lira perché al primo posto c’è l’economia, perché politica e tecnocrazia lavorano insieme per dare un futuro ai nostri giovani. “Sta in noi, sta in tutti noi” dice Menichella trasferendo ai suoi successori una regola che Ciampi più di tutti fece sua. Seguiamo il racconto di Pescatore nella fase dello sviluppo che riequilibra e in quella della paura di chi vuole dissipare.

Primo episodio. “Oi Marì oi Marì quanto suonno aggio perso pe’ tte” Donato Menichella prende a tamburellare con le dita sul tavolo e canticchia a bassa voce questo motivetto di una canzone napoletana di fine Ottocento guardando fisso negli occhi Gabriele Pescatore, l’uomo che ha guidato per più di vent’anni la prima Cassa del Mezzogiorno, quella che ha portato l’acqua in Sardegna e le opere le faceva davvero. La scena avviene negli uffici della Banca d’Italia a Roma, in via Nazionale, nell’estate del ’59 e sono presenti all’incontro il ministro del Tesoro, Giuseppe Medici, e i vertici al completo dell’americana Morgan. Donato Menichella è il governatore della Banca d’Italia che ha legato il suo nome all’Oscar della lira e al miracolo economico italiano. Negozia con i banchieri americani un maxi-prestito in dollari e, come spesso gli capita nei momenti di tensione, non rinuncia a canticchiare tra una sigaretta e l’altra. Questa scena mi è tornata spesso in mente durante gli otto anni del mandato storico di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea tutte le volte che i soldi che venivano spesi per sostenere i titoli sovrani italiani non erano italiani ma della Banca centrale europea. Da Donato Menichella a Mario Draghi, situazioni, stagioni e persone molto differenti, identica però la credibilità degli uomini.  Dall’oscar mondiale della lira di Menichella alla faccia dell’Europa nel mondo che è Draghi e al primato globale dei banchieri centrali che gli appartiene indiscutibilmente, c’è il segno concreto di una scuola di servitori dello Stato e di banchieri che sono la firma di un’Italia rispettata nel mondo che oggi facciamo fatica a riconoscere. Viene da chiedersi: ma come abbiamo fatto a ridurci con una macchina amministrativa nazionale e regionale così scassate? Che cosa ci impedisce di avere un sussulto e di ritrovare l’orgoglio perduto? Siamo consapevoli o no che abbiamo ancora poco tempo per buttare giù tutta quella impalcatura perversa di burocrazie ministeriali e bancarie che ci rende oggi la barzelletta del mondo?

Secondo episodio. “Aggio fatto tanta fatica per mettere da parte oro e valute buone, per rafforzare l’economia, ma chisti non sanno come l’hanna consumà, sono convinti che i sacrifici sono finiti e ora si deve solo spendere”. Donato Menichella si confida sempre con Gabriele Pescatore negli anni Sessanta, in uno strano dialetto tra il foggiano e il napoletano. Si riferisce a Fanfani, al primo centrosinistra, vuol dire che vede in giro una gran voglia di dissipare mettendo tutto sul conto dello Stato e delle generazioni future.  Non sarà così. La dissipazione, quella vera, arriverà molto dopo. I giovani di oggi pagano colpe che non sono loro, ma devono recuperare il desiderio della fatica che animò i giovani nel Dopoguerra e che aveva in Menichella la sua sintesi morale. Che cosa debbano fare la politica, che è oggi una maionese impazzita tra governo e governatori regionali con pericolose manie di protagonismo, imprese sotto capitalizzate dal respiro corto e una burocrazia che blocca anche il desiderio, è chiaro a tutti meno che a chi lo deve fare.


Voglio concludere con una lettera che ho ricevuto qualche anno fa da Fabrizio Menichella, nipote del Governatore, che fa riferimento a un mio scritto sulla Domenica del Sole 24Ore che all’epoca dirigevo. Inizia così: «Ero a Orbetello nella libreria Bastogi, uno dei ragazzi mi ha avvicinato chiedendomi se ero parente di Donato Menichella, perché aveva letto il suo memorandum del Sole 24 Ore di domenica scorsa; ho detto di sì e lui mi ha dato una fotocopia dell’articolo che ho letto seduta stante e la grande sorpresa è stata quella di trovarvi citati non un nonno ma bensì due dato che da parte di mamma sono nipote anche dell’ex ministro dc del governo De Gasperi, Pietro Campilli. Ricordo anche che il citato Gabriele Pescatore era di casa da mio nonno Pietro e tutto questo oltre a farmi piacere non può che provocarmi una profonda riflessione». Queste poche righe restituiscono, quasi naturalmente, il clima di complicità familiare e tensione emotiva di uomini senza dubbio fuori del comune quali furono Menichella, il secondo nonno di Fabrizio, l’ex ministro Campilli, e il presidente della Cassa per il Mezzogiorno, Pescatore.

Devo dire, però, che a colpirmi ancora di più è la riflessione che fa discendere dal ricordo di quella stagione: «Abbiamo tutti vissuto questi ultimi trent’anni come in un grande sogno dove ricco, bello e potente era il dogma; dove il fine ultimo (i soldi, il successo e il potere) giustificavano ogni mezzo per raggiungerlo. Forse è veramente giunto il momento di ricominciare a costruire un’altra Italia e per farlo bisogna iniziare dalle persone, dalla scuola, dai maestri prima e dai professori poi, dai genitori sempre; ai nostri ragazzi dobbiamo ricominciare a dettare le regole, ridare forza alle nostre istituzioni scegliendone con cura gli amministratori, richiedere condanne pesanti a chi si macchia di reati contro la pubblica amministrazione perché delinque contro ognuno di noi…». Il nonno paterno di Fabrizio ha lasciato ai figli «poche cose e di poco valore, ma tantissimi libri, manoscritti e un’eredità morale che non si può comprare perché non ha un prezzo».

Rifiutò tutto: interviste, i Lincei, l’offerta di essere nominato senatore a vita, si ridusse lo stipendio da Governatore onorario e visse quasi tutta la vita in una casa in affitto in via Merulana a Roma. Nel 1960 alla lira fu assegnato l’oscar delle monete e Berruti vinse la gara dei 200 metri alle Olimpiadi. La nostra malandata politica di oggi non riesce a cogliere neppure la spinta travolgente che la Grande Depressione mondiale regala loro per cambiare tutto e per farlo in fretta. Ha bisogno di ritrovare quello spirito alimentato da un clima, quasi familiare, di complicità, e di rimettere in moto la macchina burocratica digitalizzando tutto e rinnovando la testa e i metodi di comportamento. Per fare bene, non per delinquere o continuare a vendere sogni.


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Francesco Ridolfi

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