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Un anno dall’attentato del 7 ottobre: Lo Stato ebraico finisce spesso sul banco degli imputati. Gli accusatori saltano così a pie’ pari l’abisso che separa uno Stato democratico dai terroristi di Hamas
È passato un anno da quel tragico 7 ottobre che – come in molti abbiamo osservato – ha segnato un tremendo spartiacque nella storia del Medio Oriente. La portata inaudita dell’attacco di Hamas alla popolazione di Israele, la ferocia delle sue modalità di esecuzione, il trauma che esso rappresenta tuttora per le famiglie delle vittime e degli ostaggi ancora nelle mani dei loro rapitori, ma soprattutto la prova della vulnerabilità dello Stato di Israele che esso ha evidenziato, sono altrettanti fattori che hanno condotto alla prevedibile massiccia reazione militare portata avanti dal governo Netanyahu in questi mesi.
Tuttavia, la portata devastante del 7 ottobre va ben oltre Israele e ben al di là dei confini di Gaza, origine dell’attacco del 7 ottobre e dunque obiettivo primario dell’offensiva delle forze armate israeliane. Da un lato, è emersa nel mondo, a cominciare dai media e dagli ambienti accademici e culturali occidentali una strisciante attribuzione ad Israele delle responsabilità di fondo del conflitto in corso. La sua reazione militare è stata giudicata sproporzionata e indiscriminata. Organismi internazionali come la Corte Internazionale di Giustizia hanno posto lo Stato ebraico sul banco degli imputati con l’accusa di genocidio del popolo palestinese. L’abisso che dovrebbe separare uno Stato democratico da un’organizzazione terroristica come Hamas è stato saltato a pie’ pari.
UN ANNO DOPO L’ATTENTATO DEL 7 OTTOBRE
I tentativi di ricostruire l’esatta dinamica degli eventi, di considerare le sue radici storiche, di ristabilire la concatenazione di cause ed effetti della crisi, sono divenuti esercizi quasi impossibili, perché vengono sistematicamente e strumentalmente tacciati di voler prendere le parti del più forte contro il più debole.
In altre parole, si è imposta nei media e nelle opinioni pubbliche un’interpretazione del conflitto che impegna Israele su più fronti basata sulla dicotomia tra oppresso e oppressore, tra occupante e occupato (malgrado Israele non occupasse Gaza dal 2005).
Una volta imboccata questa strada, tutto è diventato possibile. Il formidabile rafforzamento del dispositivo paramilitare di Hamas non è più frutto delle scelte strategiche dei suoi alleati, ma il risultato dell’interessata negligenza di Netanyahu.
Il cinico utilizzo della popolazione civile di Gaza come scudi umani a protezione di tunnel, centri di comando e postazioni missilistiche non è un’ulteriore prova della brutale condotta di Hamas, bensì un elemento che dovrebbe interdire il diritto di Israele di difendersi.
La natura democratica e liberale dello Stato di Israele, la sua capacità di inclusione, di rispetto dei diritti delle minoranze, la potenza e la vitalità del confronto politico al suo interno sono stati totalmente misconosciuti.
LA REALTÀ ROVESCIATA
L’aggredito è divenuto l’aggressore e la vittima si è confusa col suo carnefice. Ancora una volta, Israele è costretto a difendersi da solo. Potendo contare finora soltanto sull’aiuto militare di un’Amministrazione americana in sempre maggiori difficoltà a motivo delle lacerazioni che le divergenti letture della crisi determinano nell’opinione pubblica occidentale.
La valenza disgregante e chiarificatrice del 7 ottobre non ha ancora esaurito tutti i suoi effetti. Ora si allarga via via che il conflitto assume una dimensione malauguratamente, ma prevedibilmente regionale.
Spesso in passato gli attacchi terroristici contro Israele hanno mirato – nelle menti dei loro mandanti – anche a costringere Israele a una reazione muscolare che gli avrebbe alienato parte del sostegno e della solidarietà di quell’Occidente di cui è parte integrante.
La dottrina militare israeliana prevede che obiettivo della reazione sia ristabilire la deterrenza. Ovvero mettere il nemico in condizioni di non nuocere puntando sull’efficienza delle proprie forze armate e sull’abilità dei propri servizi di informazione.
UN ANNO DOPO L’ATTENTATO DEL 7 OTTOBRE, IL LEGAME TRA ISRAELE E USA
Sappiamo anche che in Medio Oriente colpire Israele significa colpire gli USA, il suo principale alleato di cui lo Stato ebraico rappresenta una sorta di avamposto nell’area.
Il 7 ottobre è emerso un ulteriore obiettivo più specifico e importante. Sabotare o quanto meno allontanare nel tempo la possibilità di un’intesa definitiva tra Israele e i paesi islamici sunniti. Accomunati a Israele dalla comune, profonda percezione della minaccia rappresentata dalla potenza scita per antonomasia: l’Iran.
Per Teheran gli Accordi di Abramo, sottoscritti nel 2020 da Israele con Bahrein, Emirati Arabi, Marocco e Sudan (sotto l’egida degli USA e il silenzioso beneplacito dell’Arabia Saudita) sono una prospettiva esiziale.
Infatti, la possibile saldatura tra lo Stato ebraico e le potenze sunnite (auspicabilmente la stessa Arabia Saudita, la cui dinastia è Custode dei Luoghi Santi dell’Islam) in funzione anti-iraniana isolerebbe Teheran nello scacchiere regionale e soprattutto porterebbe alla luce le sue profonde tensioni interne e il fallimento del regime teocratico che lo governa con brutalità dal 1979.
Non sorprende quindi che i più recenti attacchi mirati di Israele contro i vertici del Partito di Dio, Hezbollah, ovvero il braccio armato di Teheran in Libano e addirittura sui capi di Hamas ospitati a Teheran abbiano sconvolto gli Ayatollah e l’intero clero scita portando ai drammatici sviluppi di questi giorni e all’allargamento del conflitto al suolo libanese.
REAZIONI INASPETTATE
Non sorprendono neppure la mancata solidarietà dei governi arabi con Teheran, il sotterraneo ma essenziale coinvolgimento militare di alcuni paesi arabi nel contrastare gli attacchi aerei iraniani contro Israele e la reazione entusiasta di alcune piazze sunnite di fronte all’annientamento dei capi di Hezbollah.
Ormai è palpabile il profondo disagio della dirigenza iraniana, stretta nel dilemma tra lavare l’onta subita e scatenare un conflitto su larga scala che il regime non può permettersi di affrontare senza mettere a repentaglio la sua stessa tenuta. Khamenei nel suo discorso in memoria di Nasrallah, il capo di Hezbollah ucciso in un raid israeliano in Libano, ha chiamato l’intero mondo islamico a fare fronte comune contro il nemico comune, quell’Occidente rappresentato dagli USA e da Israele (che gli Ayatollah definiscono “il grande Satana” e “il piccolo Satana”), ma la sua è una pretesa impossibile.
Sorprende, viceversa, che in Occidente la comunanza di valori fondanti tra Occidente e Israele, tra gli USA e l’Europa sia così poco compresa e ancor meno condivisa. Lo dimostrano talune manifestazioni propalestinesi che poco hanno a che fare con la legittima aspirazione dei Palestinesi a un loro Stato, bensì rappresentano la punta di un iceberg, ovvero il sintomo delle crescenti pulsioni antisistema e anticapitaliste che serpeggiano nelle nostre società insidiando il primato della politica e contestando il valore del metodo democratico.
Sorprende che accreditati sostenitori dei movimenti per i diritti civili, della parità di genere, del rispetto delle identità e diversità del genere umano, si ritrovino a inneggiare a ideologie fondamentaliste e in sostanza a legittimare crimini come quelli commessi il 7 ottobre come strumenti estremi, ma giustificabili, di una lotta di liberazione e di affermazione del diritto all’autodeterminazione.
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